Maestri

27 Mag 2008

Non vorrei essere troppo deludente dopo la relazione del professor Zagrebelsky. I miei personaggi si accodano e si accordano o meno nella cornice di quel che ha detto. Sono uomini del Novecento, vissuti in tempi calamitosi: due guerre mondiali, i Lager, i Gulag, la Shoah, la bomba atomica, il razzismo più crudele, le stragi, i conflitti che ancora oggi seguitano a insanguinare il mondo. L’uomo ha messo piede sulla luna, il progresso scientifico è stato di grande rilevanza, ma il secolo non è stato certamente benigno.L’esaltazione del progresso vero o finto – può trasformarsi in cinismo – ha cancellato infatti illusioni e ideali che fanno da lievito all’esistenza dell’uomo consapevole.Chi sono questi uomini e queste donne che considero miei maestri e vorrei che lo fossero per tutta la comunità, oggi soprattutto, in un momento di degrado civile e di restaurazione politica, in cui i modelli sono all’opposto?Diversi fra loro per carattere, responsabilità, saperi, questi uomini e donne hanno legami profondi sull’essenza del vivere: l’ansia di libertà per cui non pochi si sono sacrificati, hanno subito carcere e confino; la serietà; la fede nella cultura come presupposto del progresso sociale e civile; la tolleranza; l’impegno costante per il destino del Paese, considerato il bene più grande; il rispetto per lo Stato di diritto e per la Costituzione della Repubblica, nata dopo tanto dolore.Cito alcuni di quelli che ho conosciuto. Franco Antonicelli, Aldo Carpi, Ferruccio Parri, PaoloVolponi, Umberto Terracini, Primo Levi, Norberto Bobbio, Vittorio Foa, Italo Pietra, Alessandro Galante Garrone, Eugenio Garin, Nuto Revelli, Franco Venturi, Cesare Garboli, Giovanni Ferrara, padre David Maria Turoldo, Carlo Dionisotti.Li ho incontrati nel corso dei decenni.

Le idee, le predilezioni, gli interessi comuni politici e culturali hanno spesso favorito la nascita di amicizie e l’approfondimento di consonanze.Parlerò di qualcuno di loro. Frammenti di vita e di memoria, esempi di rapporti personali e non soltanto, privi di presunzioni biografiche. Maestri a posteriori, in qualche caso.
Nuto Revelli. Il suo studio a Cuneo. Aveva appiccicato al muro due fotografie. La prima, un’immagine risorgimentale, tre partigiani della III Divisione Langhe di “Giustizia e Libertà”, Armando Meniciati e i fratelli Cirelli condotti a morte dai fascisti. Camminano con alta dignità, le mani incatenate dietro la schiena, la testa levata, lo sguardo dritto. Un soldato di Salò con l’elmetto in testa e il mitra imbracciato sembra più impaurito di quei tre giovani di poco più di vent’anni, due operai, un barbiere. Vanno alla fucilazione, a Dogliani.La seconda fotografia rappresenta Ferruccio Parri, con il cappello in testa e gli occhiali sulla fronte. Nuto amava molto quel che Carlo Levi scrisse di Parri nell’ “Orologio”: “Mi pareva che fosse impastato della materia impalpabile del ricordo, costruito col pallido colore dei morti, con la spettrale sostanza dei morti, con la dolente immagine dei giovani morti, dei fucilati, degli impiccati, dei torturati, con le lacrime e i freddi sudori dei feriti, dei rantolanti, degli angosciati, dei malati, degli orfani, nelle città e sulle montagne. In quelle due immagini che si compongono l’una nell’altra c’è tutta la storia di Nuto, la sua memoria accomunata alla memoria dei compagni inquieti e ribelli della vita.Nuto Revelli non aveva dimenticato niente del fascismo e del suo orrore.

Ufficiale di carriere degli alpini aveva combattuto da valoroso in Russia. Si era salvato, ma al ritorno si sentiva come uno che è caduto in un pozzo, non credeva più in nulla, non credeva più nell’uomo che aveva visto scatenato e feroce. L’organico della sua compagnia sul Don era di 8 ufficiali e di 342 alpini. A Udine, al ritorno, erano rimasti 3 ufficiali e 70 alpini. C’è una pagina nel “Disperso di Marburg”, forse il suo libro più bello, in cui parla di allora: “Mi rifugiai in un caffè, credendo che fosse un bar qualsiasi, ma mi sentii subito un estraneo. Era un locale elegante, tutto a specchi, e più mi guardavo, più cresceva in me un senso di disagio. Ero vestito alla meno peggio. La giubba era la stessa del Don, di panno da guerra, sbiadita come l’erba quando attende la prima neve. Lo strappo alla manica, all’altezza del bicipite, era mal rattoppato, come la mia ferita. I pantaloni erano nuovi, informi, sfacciatamente verdi. Il cappello alpino, anche’esso nuovo, rotondo come un panettone, era così indecente che mi rifiutavo di indossarlo. Solo le uose di cuoio marrone e gli scarponi dalle suole Vibram dicevano che forse ero un ufficiale.Il 2 aprile, quando mi lasciai il “campo contumaciale” definitivamente alle spallle, avevo una gran voglia di piangere. Mi separavo da un mondo che nel bene e nel male mi era appartenuto e mi apparteneva. Era finita un’epoca. Mi volsi a guardare ancora una volta la facciata della caserma, e in quell’attimo mi apparve come in un sogno la lunga scia nera della ritirata.L’unico mio bagaglio consisteva in un fagotto più lungo che largo.

Ero geloso delle mie armi automatiche, i due Parabellum russi e la Machinpistole tesdesca, avvolti in un telo da tenda. Sapevo di essere fuorilegge, ma la ribellione rappresentava ormai l’unica mia risorsa. Solo ribellandomi riuscivo a non sentirmi un vinto”.Nuto, anche nello smarrimento di Udine sapeva o intuiva che quei due Parabellum russi e quella Machinpistole tedesca li avrebbe usati, chissà come, chissà quando, contro i nazisti, che in Russia aveva visto all’opera con tutta la loro ferocia, anche se allora pensava soltanto alla vendetta, con quelle armi preziose. Dopo l’armistizio fu tra i primi a salire in montagna. Anche per Nuto vale la figura del maestro. Per lui fu Dante Livio Bianco, comandante partigiano, illustre giurista. Senza di lui avrebbe probabilmente fatto la guerra, quasi per spirito di vendetta per tutto quel che aveva sofferto mandato al macello dal fascismo, con i suoi alpini. Dante Livio Bianco gli parlò della libertà, delle ragioni morali e civili dell’antifascismo, dei fratelli Rosselli, di un mondo di cui lui, giovane tenente uscito dall’Accademia militare di Modena, cresciuto nel clima del fascismo, ignorava tutto.Non si stancava, dopo, Nuto di raccontare. Dimenticare, era solito dire, voleva dire respirare, tornare a vivere. Ma era troppo comodo, facile, persino immorale, diceva. “E così ho giurato a me stesso: ricordati di non dimenticare”.Aveva lasciato l’esercito, per vivere faceva il commerciante di lamiere, di profilati di ferro, prodotti siderurgici.

E alla fine della settimana diventava scrittore. Il registratore al posto del mitra. E ha messo insieme le storie e le memorie dei salvati, le lettere dei caduti e dei dispersi, i contadini del Mondo dei vinti che stava per scomparire e poi le donne, L’anello forte, storie di dolore, di sofferenza, ingiustizia, arretratezza. Sono le donne a reggere le famiglie nei momenti gravi della vita e della società. Con la sua onestà, la sua fatica, la sua passione, il suo complice affetto, Nuto Revelli ha composto, scrivendo i libri che ha scritto, una preziosa saga della memoria, un universo popolare che altrimenti sarebbe andato smarrito, di sapore medievale.Un impegno politico, civile e letterario, arduo e profondo, il suo. Il gioco del ricordare, infatti, non è indolore, crea lacerazioni, rimorsi, ripulse in sé e negli altri. Ma è il segno più profondo del riscatto umano e della volontà di sopravvivere. Maestro di giustizia, di libertà, di democrazia.
Raffaele MattioliSembra un altro mondo quello di Raffaele Mattioli rispetto a quello di Nuto. Non è così; l’attenzione per gli altri è comune ed è comune in entrambi la fede e la speranza mai sopita per un Paese migliore. Mattioli è stato definito in innumerevoli modi: il banchiere umanista, l’umanista banchiere, il banchiere illuminato, il banchiere letterato, il banchiere mecenate, il grande borghese eccentrico. Sono definizioni di maniera, improprie. Sentirsi dar del mecenate, poi, l’avrebbe fatto infuriare.

Era economo, prodigo di consigli, più che di fondi. Era un grande intellettuale, profondo nella conoscenza del mondo e delle sue culture. E forse vale più di tutto a rappresentarlo la commemorazione in morte di Benedetto Croce che tenne al Rotary Club di Milano il 9 dicembre del 1952. Perché in quelle parole dedicate all’amato maestro – pubblicate in un libretto di Scheiwiller a cura di Alfredo Schiaffini -, Mattioli, consapevolmente o meno disse di se stesso. Vale anche per lui quella commemorazione del filosofo che gli dedicò le sue ultime “Indagini su Hegel”.Qualche frammento. “Non vi parlerò di un morto, ma d’un vivo, un vivo che amava le liete compagnie, la conversazione fra persone di spirito; che aveva sempre pronto un frizzo, un aneddoto da raccontare e di cui era il primo a divertirsi e a ridere; che, come il dottor Faust, solo tra gli uomini si sentiva completamente uomo, e socraticamente provava e riprovava la sua filosofia tra la gente di ogni rango, nella vita d’ogni giorno”.E poi: “Se elenchiamo le grandi lezioni della sua vita – la semplicità, la serena indifferenza ai titoli e agli onori, l’aborrimento d’ogni retorica, lo scrupolo assiduo del lavoro ben fatto che importa la costante disposizione a rimetterlo sul telaio, l’impavida ricerca e soprattutto l’impavida accettazione del vero, cominceremo a capire perché noi, tutti noi italiani, oggi più che mai possiamo o dobbiamo trar profitto dal suo insegnamento”.E ancora: “Il suo liberalismo coincideva con il culto della storia, unica fede professabile dall’uomo moderno; e dico culto della storia, perché egli ci ha insegnato che ogni storia è contemporanea, e proprio alle lotte del presente la libertà dà una giustificazione e un significato.

In questo senso egli soleva ripetere che la storia è storia della libertà, e che alla libertà non appartiene né il passato né il futuro, perché ad essa compete l’eterno”.E infine: “Se dovessi riassumere i miei ricordi in una frase, direi che don Benedetto era un uomo che non aveva paura. Non paura della violenza fisica, non dei fuochi fatui dell’apparenza e nemmeno delle grandi fiammate che bruciano sistemi e istituzioni secolari. Non aveva paura, perché era un uomo onesto e diritto, cui ripugnava di contentarsi di compromessi o di approssimazioni. E non aveva paura perché era un uomo schietto, alieno da ogni forma di fasto e di “vistosa dissipazione”.Presidente per decenni della Banca Commerciale Italiana fin quando, nel 1972, fu spodestato dal presidente del Consiglio della Democrazia cristiana Emilio Colombo e sostituito da Gaetano Stammati il cui nome nel 1981 sarà trovato nelle liste della P2 di Licio Gelli, Mattioli è stato editore della casa editrice Ricciardi, che ora non esiste più, direttore con Pietro Pancrazi e Alfredo Schiaffini della fondamentale collana di Storia e testi della letteratura italiana, bibliofilo sommo, presidente dell’Istituto di studi storici, uomo di grandi passioni umanistiche, traduttore di molti sonetti di Shakespeare e, in gara con Riccardo Bacchelli, del Kubla Khan di Coleridge, poeta lui stesso, e le sue poesie gnomiche dicono dell’esistenza, della morte e del tempo. E’ stato uno degli uomini di maggiore autorità e prestigio della finanza internazionale.

Curioso degli uomini, sa captare le loro intelligenze agli acerbi inizi e li aiuta, li indirizza. Da Enrico Mattei a Tiziano Terzani.E’ quasi un mago per la cultura italiana, risolve i problemi più delicati e complessi: la Biblioteca Stendhal, la fondazione di storia dell’arte Roberto Longhi , l’Accademia della Crusca, l’Accademia dei Lincei, la Stamperia Tallone, la Santoni, il Mondo, il Saggiatore, la biblioteca di Giustino Fortunato.Si batte per tutto quanto gli sembra degno e giusto conservare, tutelare, difendere. E anche creare dal nulla. Luigi Einaudi, nei primi anni Trenta, va a parlare con Mattioli di quel suo figlio, Giulio Einaudi, che ha in mente di mettersi a fare l’editore. Mattioli cede allora a Giulio la rivista La Cultura e dona a Einaudi anche il marchio, lo Struzzo, che diventerà così famoso – Spiritus durissima coquit -. Tra i primi libri pubblicati dalla Einaudi c’è “Crisi del liberismo o orrore di uomini?” di Attilio Cabiati, maestro di Mattioli, che faceva parte del programma editoriale della Cultura. Con passione e ostinazione Mattioli seguita per tutta la vita a interessarsi di Einaudi, editore di Gramsci e di Sraffa. E’ Mattioli l’artefice del salvataggio della casa editrice nel 1954-1955. Riesce a mettere insieme mezzo miliardo, crea la struttura societaria della casa editrice trasformandola in società per azioni, la salva dalla crisi. Certo, se fosse stato in vita, nel 1994, avrebbe impedito che quella gloriosa casa editrice finisse nelle mani di Berlusconi.E’ di Raffaele Mattioli l’uomo che mette in salvo i Quaderni del carcere di Antonio Gramsci.

Le contraddizioni della storia. Il più potente banchiere d’Italia anche durante il fascismo che salva gli scritti preziosi del capo comunista.Dopo la morte di Gramsci, il 27 aprile 1937, nella clinica Quisisana di Roma, la cognata Tatiana mette in salvo i 32 quaderni. Il 6 luglio li consegna a Mattioli il quale li custodisce in un luogo segreto in attesa di riuscire a rispettare la volontà di Gramsci che è quella di farli avere alla moglie Giulia in Russia. I quaderni arrivano a Mosca solo nel luglio 1938. Dove nasconde Mattioli le carte di Gramsci? Nella cassaforte della sede di Roma della Banca Commerciale, come scrisse su Rinascita Nilde Jotti dopo la morte di Mattioli? Nello studio romano del banchiere , in una sala del palazzo Colonna in piazza Santi Apostoli? Le interpretazioni non sono molto credibili, la questione è rimasta irrisolta. Pare che nella vicenda abbia avuto un ruolo determinante l’ignaro fratello di Raffaele, Enrico, funzionario delle cartiere Burgo.Io conoscevo un po’ il dottor Mattioli, come era uso chiamarlo. Negli ultimi 4-5 anni della vita, andavo a trovarlo quasi ogni giorno nella sua casa di via Manzoni a Milano con gli allora giovani redattori della sua amata Ricciardi. Dopo le tre fin quasi alle cinque, quando apriva una porticina e andava in banca, nello stesso edificio.Su quei divani della sua casa, Mattioli faceva scuola senza aver di certo l’aria di farlo, con la sua ironia, i suoi paradossi, la sua irriverenza, le sue sottigliezze, la sua affettuosità meridionale, il suo parlar colorito.

Il passato e il presente, D’Annunzio a Fiume dove era stato nel 1919, l’Italia di Giolitti e l’Italia di quegli anni, la storia, la filosofia, la poesia. Dante, l’Ariosto, Manzoni e Leopardi. E gli altri giovani autori prediletti, con il Croce: Galiani, Vico, Montaigne. Detestava i sentimenti vischiosi, la decadenza.Che amabile scuola privilegiata fu quella del dottor Mattioli. E in quegli anni, dal ’68 al ’72-’73 non venne in mente né a me né agli amici della Ricciardi di chiedergli di Gramsci e dei suoi Quaderni. Che sprovvedutezza, che disattenzione!E’ difficile mettere in questo frammento d’intervento la personalità e le sfaccettature di un uomo come Mattioli. C’è, per chi vuol sapere, il libro di Giorgio Rodano Il credito all’economia che spiega il grande banchiere. Ci sono i libri di Giovanni Malagodi, Profilo di Raffaele Mattioli e di Sandro Gerbi, Raffaele Mattioli e il filosofo domato che spiegano chi fu il banchiere arrivato a Milano dalla terra d’Abruzzo. Ci sono poi le sue fiammeggianti relazioni annuali della banca e gli Inventari degli archivi che Francesca Pino, l’archivista di gran livello di quella che si chiamava Banca Commerciale Italiana sta via via studiando e pubblicando.Che cosa resta di quei pomeriggi nella gran casa di via Manzoni?Qualche memoria di quel che Mattioli diceva con il piglio del grande attore e non sono facili battute, ma segni di uno stile specchio di un libero modo di intendere la vita e la politica. Il suo autoritratto: “Sono un liberale con tale dose di anarchia che mi consente di non essere necessariamente democratico.

Sono un conservatore, con tale dose di senso storico che mi consente di non essere necessariamente anticomunista”.Un’altra scheggia di autoritratto: “Non filosofo né storico, ma uomo di negozi e d’affari, indenne da bibliografia propria, ancorché onusto di bibliografia altrui”.Quel che disse all’ironico Togliatti: “Una volta venne a trovarmi. “Che cosa fa?”, mi chiese. “Che senso ha oggi una collezione di classici italiani come la sua della Ricciardi?” Gli risposi così: io ho creato un muro e finché voi non avrete digerito i libri di questo muro non potrete fare neppure un saltino alto così”Quel che Mattioli pensava di certi intellettuali italiani: “Uno che se fosse analfabeta, nessuno esiterebbe a dire che si tratta di un imbecille”.Quel che rispose a un grande personaggio che lo aveva sfidato con piglio polemico: “Lei è l’incorruttibile…”. “No, io sono corruttibile come tutti, solo che per comprarmi è necessario il suo immenso patrimonio, più una lira. Ma lei non possiede quella lira”.Quel che diceva della classe dirigente italiana: “Spesso è gente che non sa di cosa parla. Si è appropriata di una serie di slogan e di una terminologia più o meno repellente di cui non capisce il significato. Oggi quasi tutti parlano in modo incomprensibile: quando ti hanno detto quel po’ di balle, se tu gli chiedi che cosa significa, non lo sanno. Più non dimandare, è il loro motto. Cioè l’ignoranza democratica non è ancora diventata cultura popolare”.

Il problema della classe dirigente era il suo assillo. Pensava sempre al futuro, Raffaele Mattioli, ai modi di far progredire il Paese. Non era un pessimista, detestava i nonsipuotisti, i piagnoni, quelli che hanno paura. Negli ultimi anni della vita aveva fondato l’Associazione per lo studio della formazione della classe dirigente nell’Italia unita. E’ rimasto lo Statuto. La sua era un’altra Italia.
Carlo DionisottiUn altro maestro, Carlo Dionisotti, illustre storico della Letteratura italiana. Si definiva uno studioso di storia e anche un “operaio della letteratura antica”. Era un insolito scrittore di cose letterarie, capace di mescolare la vita degli uomini, la storia, lo studio del mondo, con la filologia dei dialetti, la lingua. Era diventato famoso nel 1967, a sessant’anni, quando da Einaudi uscì Geografia e storia della letteratura italiana che ruppe gli schemi della cultura accademica in crisi: la letteratura studiata con passione politica e grande erudizione in tutti gli angoli d’Italia, le regioni e la loro realtà storica, la fragilità dell’assetto unitario, la società frammentata, le piccole patrie, la distruzione, in nome dell’unità, delle differenze reali in un Paese come il nostro privo per secoli di una coscienza nazionale.Era un uomo spiritoso, di grande simpatia, – le sue risate squassavano le pareti – possedeva la semplicità di chi non ha bisogno di fingere usando parole e concetti difficili. L’ho conosciuto a Londra dove viveva in un quartiere residenziale ai margini della metropoli.

In una casa bianca con il giardinetto sul davanti e sul retro, la siepe, il bow-window che spunta fuori, allineata a una catena di case identiche. A pianterreno la sala della musica, con due pianoforti e il clavicembalo della moglie, un camino, le fotografie delle tre figlie e dei nipoti. Per una scala di legno si saliva al suo studio e la biblioteca girava tutt’intorno alle pareti. Sembrava un pezzetto trapiantato dell’Italia colta di una volta, coi vecchi libri rilegati o con la copertina ruvida marroncino e grigia di una volta e le collane di Laterza, della Ricciardi, di Einaudi.Quella di Carlo Dionisotti è la storia di un italiano rifiutato in patria che nel 1947 va a Londra, lettore della nostra lingua a Oxford. L’ambiente era gelido, conservatore, snobistico, altezzoso come nei film sui college. Quello che sarebbe stato riconosciuto come un’autorità della storia letteraria era solo l’emigrante di un Paese sconfitto e ancora nemico. Nel 1949 andò a insegnare all’Università di Londra e le cose andarono meglio. Ci rimase per più di vent’anni, ma tutta l’attività scientifica di Dionisotti si è svolta al di fuori della scuola, quasi un secondo lavoro. In un paese come l’Inghilterra, amava ricordare, esiste un grande senso della personalità favorito da una tradizione biografica molto forte, ed esistono biblioteche che funzionano. Alla British, Dionisotti ha passato metà della vita. Nato a Torino nel 1908 è morto a Londra nel 1998. Non c’è stata nel corso dei decenni un’università italiana – sarebbe stato un onore – che abbia pensato di offrire una cattedra a un uomo che si può accomunare per la qualità delle opere ad Arnaldo Momigliano e a Gianfranco Contini, gli studiosi che Dionisotti amava e stimava di più.

L’Università di Pavia, nel 1990, l’aveva premiato proprio per il suo Ricordo di Arnaldo Momigliano, pubblicato dal Mulino. Gli aveva fatto piacere quel piccolo rammendo. “Premia me, ma ricorda anche quel grande maestro”, mi aveva detto in quell’occasione. L’avevo visto e rivisto a Londra, a Torino, a Romagnano Sesia, nel Novarese, dove appena fuori del paese possedeva una bella villa neoclassica affondata in un vasto parco di magnolie, aceri, abeti più che secolari, un faggio enorme. Era contento a Romagnano, lui offeso dalla patria ingrata.“Alla mia età, mi disse una delle ultime volte che lo incontrai, il mondo si stringe e la patria acquista una grande importanza. E’ capitato anche ad Arnaldo Somigliano che è morto qui. Se esisteva un uomo universale era lui, eppure ha voluto essere sepolto nel cimitero di Cuneo. Io, quando sono a Romagnano, mi sento subito a casa in mezzo alla gente che mi fa ritrovare parte di un tessuto che è anche mio. Quando sono là sento naturalmente la mancanza della mia lingua, degli amici, della mia terra, della mia aria. Qui è la mia vita”.La sua era la generazione ferita dal fascismo. Uomo di “Giustizia e Libertà” e del Partito d’azione, ne parlava dopo tanto tempo con accoramento, con pena e con una rabbia non ancora smarrita. “Ci siamo trovati a dover accettare – mi disse una volta – qualcosa che era nato fuori di noi, senza la nostra corresponsabilità. Quelli che hanno dovuto adeguarsi per motivi pratici, ma che hanno mantenuto dentro di sé la vergogna e il rimorso, hanno imparato l’odio.

Io credo che dai tempi di Dante in poi nessuna generazione abbia odiato più della nostra. E dai tempi dei guelfi e ghibellini in poi non ci sia stata una guerra civile come quella che c’è stata in Italia dopo il 1943”.Dopo l’assassinio di Giovanni Gentile, Dionisotti scrisse sui Nuovi Quaderni di Giustizia e Libertà, clandestini, nel maggio 1944, un articolo sulla morte del filosofo che non fa sconti. I saperi di Gentile erano un’aggravante, non una diminuente. I partigiani della montagna non avrebbero capito perché a un grande intellettuale si riservasse una sorte privilegiata.“Il fascismo – scrisse allora Dionisotti – porta la responsabilità di aver negato nel nostro secolo, entro o contro la civiltà moderna, il diritto di vivere a uomini avversi o anche solo diversi. Pertanto chi sta col fascismo condivide, chiunque esso sia, quella responsabilità, e partecipa del destino di violenza e di sangue che ne consegue. Questo Gentile doveva sapere”.
Finisco qui. Avrei voluto parlare anche di altri maestri. Di Eugenio Garin, un giorno che nel suo studio di via Crispi a Firenze gli chiesi: “Cosa le piace, professore di questo nostro mondo?”. E lui, come in un soffio che si perdeva su, verso l’altissimo soffitto: “Niente”.E avrei voluto parlare di Giovanni Ferrara, un maestro naturale. Quante volte, all’improvviso, mi viene in mente: “devo chiederlo a Giovanni che sa districare i nodi più intricati e rendere limpido l’oscuro e l’ambiguo”.Con rinnovata sofferenza capisco che non è possibile.

E’ come se in quel momento imparassi che cosa è la morte e mi si strozza la mano che sta per afferrare il telefono. Grazie
*Corrado Stajano, scrittore, autore dell’ultimo Maestri e infedeli, ritratti di una sessantina di protagonisti del ‘900, anticonformisti, incontrati nel corso della sua carriera, è intervenuto al Seminario di LeG dedicato al tema Democrazia e Laicità: i Maestri, che si è tenuto al Cassero di Poggibonsi, il 24 e 25 aprile 2008. Questo è il testo integrale del suo discorso.
Gli altri interventi:
G.Zagrebelsky, La democrazia ha ancora bisogno di maestri
P.Bellini, La politica ecclesiale italiana dal liberismo al fascismo

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