La politica ecclesiastica italiana, dal liberalismo al fascismo

26 Mag 2008

«Abbiamo adunque con la Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo obbligo, d’esser diventati sanza religione e cattivi; ma ne abbiamo ancora un maggiore, il quale è cagione della rovina nostra: questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa nostra provincia divisa. E veramente alcuna provincia non fu mai unita o felice, se la non viene tutta alla ubbidienza d’una republica o d’uno principe, come è avvenuto alla Francia e alla Spagna. E la cagione che l’Italia non sia in quel medesimo termine, né abbia anch’ella o una repubblica o un principe che la governi, è solamente la Chiesa; perché avendovi abitato e tenuto imperio temporale, non è stata sí potente né di tal virtù che l’abbia potuto occupare il restante d’Italia e farsene principe; e non è stata, dall’altra parte, sí debile che, per paura di non perdere il dominio delle cose temporali, la non abbia potuto convocare uno potente che la difenda contra a quello che in Italia fusse diventato tropo potente», Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, I, 12.
1. Non permettevano – le circostanze della storia – che l’unità politica d’Italia si compisse con l’assenso della Sede Apostolica di Roma. Stavano a impedirlo le ragioni territorialistiche del Principato politico dei Papi [di uno Stato posto di traverso alla Penisola] le quali non potevano non condizionare in senso marcatamente anti-unitario la Diplomazia di Curia. Né poteva – il Papato – far buon viso allo spirito laico liberale che largamente prevaleva in seno al movimento indipendentistico unitario.

Come in passato cosí adesso [al profilarsi del nostro Risorgimento nazionale] – Roma (forte d’una collaudata esperienza) non poteva guardare se non con inquietudine al congiungimento politico del Settentrione e del Meridione d’Italia. Avrebbe – questa temuta operazione – come schiacciato in mezzo il Patrimonium Sancti Petri: inevitabilmente preludendo ad un assorbimento delle stesse Province pontificie. Era stato [è vero] ventilato – da tutto un variforme movimento culturale – il progetto (benché incerto) d’una confederazione politica italiana sotto l’alta mano del Pontefice. Idea – questa – invitante: alla quale non aveva negato un qualche patrocinio la stessa impulsività iniziale di Papa Mastai Ferretti, non scevra d’un certo personale narcisismo. Idea – però – non solo politicamente ambigua, ma illusoria: “spiritualmente irrealizzabile”: per il suo voler metter assieme grandezze fra loro «incompossibili». Impensabile infatti conciliare il rango universale di spettanza del Vescovo di Roma [Capo carismatico della Cattolicità tutta intera] con l’erezione del Pontefice a Capo politico di una specifica Nazione. Né [ovviamente] poteva consentire – il Vicario di Dio su questa terra – a un ordinamento federalistico che lo tenesse in una posizione in qualche misura secondaria. Non meno severi impedimenti venivano al Papato dalla “impostazione ideologica” della quale si presentavano partecipi i circoli più vivi e più impegnati del movimento risorgimentale.

Per decenni, a contrastare gli incipienti propositi unionistici italiani, era stato [ricordiamolo] il “legittimismo” – mezzo politico, mezzo poliziesco – della Santa Alleanza: negatrice perentoria delle folgorazioni intellettuali e dei lasciti politici del razionalismo illuministico. Nata a Vienna [in un milieu traumatizzato da drammatiche esperienze] l’Alleanza – nel suo reazionarismo autoritario – demonizzava senza meno (e si affannava a soffocare) la carica eversiva di cui davano prova le inammissibili pretese “libertarie” che – qua e là in Europa – venivano via via riproponendo certi pericolosi temi trasgressivi: per tacere delle farneticazioni “socialistiche” (o “comunistiche”, come allora si diceva a preferenza). E questo – come altrove in Europa – accadeva anche in Italia: dove [venute sperdendosi ben presto le spinte federalistiche] il programma di unificazione nazionale entrava in urto aperto con l’idea legittimistica: teso – com’era difatti – a sbarazzare la Penisola da una fitta rete di vincoli dinastici. Vincoli ascrivibili – per giunta – a Case regnanti retroverse, non specialmente aperte in fatto di libertà civili e libertà politiche. E ciò segnava in senso “marcatamente liberale” (non privo, a volte, di simpatie solidaristiche) la contestazione che dei Governi restaurati venivano facendo le forze nazionali.
2. Quest’inquietante impostazione d’ordine ideologico non poteva riuscir grata al conservatorismo autoritario della Chiesa romana, fattasi garante (nelle Nazioni a lei devote) della Restaurazione politica europea.

Drasticamente rifiutava – la Sede Apostolica di Roma – una qualsiasi concessione al pensiero liberale. Si dava [è vero] che non del tutto refrattari – verso taluni aspetti di quest’ultimo – si mostrassero [in Francia, specialmente, e poi in Italia] autorevoli settori della intellettualità cattolica. Si pensi a un Lamennais, e dentro certi limiti a un Rosmini. Coglieva però a pieno – il Magistero pontificio – quanto in effetti v’è d’incompatibile [d’irriducibilmente eterogeneo] fra il «dogmatismo fideistico» – congenito a una religio revelata quale l’evangelica – e l’«antidogmatismo» che intrinsecamente invece contrassegna il relativismo liberale. Tale dagli uomini di fede è giudicato – l’Evangelo – da racchiudere per intero [«esso soltanto»: per intercessione esplicita di Dio] l’«unica vera Verità»: l’unica degna di legittimo riguardo. Laddove l’agnosticismo liberale reputa per nulla assoggettabili a un “giudizio oggettivo di valore” [perché “razionalmente indimostrabili”, e perché “razionalmente inconfutabili”] tutte le opzioni personali che attengono alle supreme ragioni del nostro essere. Non altrimenti son queste percepibili che in grazia d’una “illuminazione coscienziale” cui vada la partecipazione emotiva d’ogni singolo soggetto umano. Onde ne segue che [vedendo espresso, in quelle supreme scelte esistenziali, quanto v’è di spiritualmente più impegnante in ciascun uomo] il pensiero liberale tutte le collochi – ossequente – su un piano di pari elevatezza umana, e pari dignità civile.Respingeva poi – la Prima Sede – [con animo altrettanto risoluto] qualsiasi pretesa affinità fra “comunitarismo evangelico” e “comunitarismo socialista”.

L’uno misticamente è proiettato verso l’empireo dei caelestia, quale sentito dagli uomini di fede al di là del tempo storico. L’altro [il comunitarismo socialista] saldamente è incarnato – viceversa – nella realtà dei sensibilia, preso – com’è tutto – dalla urgenza di risolvere in hoc mundo i problemi de hoc mundo. Opponeva al velleitarismo populista – il Magistero – una ferma obiezione di principio: non essere lo stabilimento societario un prodotto artificiale della storia [tale da rispecchiare il prevalere, nella competizione politica concreta, di certi ceti sociali su certi altri]; risponder esso – viceversa – all’ordine perenne [“organicistico”] voluto imprimere alle creature razionali dalla sapientia e dalla prudentia regnativa del Dio-Creatore biblico.E succedeva – nella realtà della Penisola – che quest’avversione del Papato [questo suo osteggiare, per ragioni temporalistiche e ideologiche commiste, la ricomposizione politica d’Italia] si portasse appresso l’avversione dell’intera Gerarchia cattolica nostrana: mai saputa erigersi – nel volgere dei secoli – a “Chiesa nazionale”: non saputa mai farsi “Chiesa patriottica”: interprete e patrocinatrice degli interessi nazionali; sempre accontentasi – piuttosto – di agire da semplice propaggine della Prima Sede: strumento delle ambizioni universalistiche di Roma. [Nulla di comparabile in Italia a ciò che ha voluto e che ha saputo essere la Chiesa gallicana in Francia: a ciò che in Spagna ha voluto e saputo essere la Chiesa iberica].
3.

Facile allora intendere [nella nostra esperienza ottocentesca] quanta incidenza esercitasse – il rigido “non licet” della Chiesa cattolica in Italia – sul modo di atteggiarsi [ideologico e pratico] dello stesso fronte antagonistico. Facile comprendere quanto quel contrapporsi irremovibile agisse sull’animo di quelli che invece si battevano per l’unità della Nazione: per il suo rinnovamento. Non dico [beninteso] che fosse proprio il veto della Chiesa (espresso “tam in capite quam in membris”, e assiduamente ribadito) a cagionare nel partito nazionale – in via determinante – il contraccolpo d’una sorta di “avversione speculare”: altrettanto radicata, altrettanto irriducibile. Semmai quella chiusura intransigente valeva più ancora a appesantire una situazione già pesante: valeva a risvegliare e inacerbire certe diffuse ostilità d’antica data: di dipendenza illuministica, di intonazione giacobina. Ed essa valeva a irrigidire gli stessi settori moderati del movimento liberale: quelli pur riguardosi – per fermo scrupolo ideale – degli “interna conscientiae” e degli “interna ecclesiae”. Inevitabile – comunque – che (nella vivezza del confronto) il porsi ufficiale della Chiesa [quel suo metter assieme, in termini non sempre per giunta armonizzabili, ragioni di tanto differente impatto e tanto differente levatura] facesse sentire il proprio peso su svariati aspetti della legislazione risorgimentale sardo-piemontese e poi italiana: già per se stessa non lineare: soggetta a forti condizionamenti contingenti.

Nella crudezza dello scontro, quella attività legislativa era – a sua volta – ancor più tratta a mescolare i “momenti temporalistici” del contenzioso con la Chiesa [quali soprattutto si incentravano nella Questione Romana] con i momenti più propriamente “spirituali” della vicenda in atto: qual eran quelli che non tanto riguardavano – in termini specifici – lo status della Sede Apostolica di Roma, quanto piuttosto concernevano (secondo una più spaziante prospettiva) il trattamento giuridico civile della Confessione cattolica in Italia. Dico della “ecclesia regens”, e dico della “ecclesia militans”: quali operanti sul territorio nazionale. Di qui – nell’orbita giuridica statuale – l’affiancarsi (e sin l’accavallarsi) d’un variforme repertorio di disposizioni normative di differente ispirazione: di volta in volta conformate o all’uno o all’altro dei due criteri concorrenti: o addirittura attente a metterli d’accordo, non senza spiacevoli fenomeni d’intrinseca incoerenza. Lasciatasi alle spalle l’esperienza confessionistica dell’ancien régime [alla quale erano tornati a volgere invece con rimpianto i Potentati dell’Europa restaurata] – respinto questo inaccettabile retaggio – la massa normativa di più consapevole e più intensa ispirazione liberale tendeva (come a proprio compito storico essenziale) alla “secolarizzazione” del pubblico apparato: e tendeva alla “privatizzazione” (se può dirsi) della vicenda etica di ognuno.

Ci si preoccupava – dal Legislatore liberale – di cancellare ogni residuo vincolo giuridico di “unione” (e di reciproca “immistione”) fra l’«ordine proprio dello Stato» e l’«ordine proprio della Chiesa». Ci si premurava di distinguere e tener distinta [anzi di “scindere”] l’esperienza di vita della civitas dalla esperienza di vita della ecclesia: riuscendo ciò non di meno a garantire all’uno e all’altro modulo di vita una compiuta libertà di espletamento: una compiuta autonomia. Ci si riprometteva – a questo modo – che le due vicende esistenziali (ciascuna nella sua propria economia) potessero difendere la propria «identità» e potessero far valere schiettamente questo lor «essere se stesse»: senza sconfinamenti e senza condizionamenti vicendevoli. Ci si rifaceva – con rigore e con fiducia – alla «idea separatistica». Ci si richiamava al principio che lo Stato debba a pieno «poter fare lo Stato», e che altrettanto pienamente – per sua parte – debba la Chiesa «poter fare la Chiesa»: senza che i due organismi [compresenti nella realtà comunitaria complessiva] si intralcino l’un l’altro o arrivino addirittura a soppiantarsi; ma senza nemmeno – d’altro verso – che essi si soccorrano a vicenda, dando ciascuno appoggio al compito dell’altro. E insieme – dal nascente Stato di diritto – ci si rifaceva alla «idea di laicità»: la quale non si restringe a prender atto della non ottenibilità – per via coattiva – d’un qual si voglia assenso spirituale umano, ma [nel presupposto, pur sempre, della non verificabilità oggettiva delle massime opzioni esistenziali] volge alla legge giuridica cogente come a legge totalmente incapace – per se stessa – d’un qual si voglia “giudizio di valore” (men che meno di “verità”) sui fatti dello spirito.

Di qui l’imposizione a quella legge di arrestarsi – riguardosa – dinanzi alla soglia invalicabile delle singole coscienze: di tenerle anzi al riparo – queste singole coscienze – [comunque sentano di dover esprimersi] da qual si voglia intromissione estrinseca. Princìpi – tutti questi – censurati (sin aborriti con acredine) dalla ecclesialità ufficiale: declassati – dal Magistero autentico – a frutto perverso d’un improvvido deliramento ideologistico, espressivo d’una «impudentissima libertas», capace di trascendere in una infausta «libertas erroris»: come dire in una aberrante «libertas perditionis».
4. Tali – però – le urgenze del momento [tali le asperità da superare: vuoi nella fase attuativa del programma unitario, vuoi nella gestione del giovane Stato nazionale] che – in più d’un caso – il Legislatore sardo-piemontese (fattosi poi italiano) se ne sentì necessitato alla adozione di provvedimenti di emergenza: se ne sentì sollecitato – calcando a volte la mano oltre misura – a un trattamento rigoroso della Istituzione ecclesiastica cattolica: ai cui anatemi e alle cui macchinazioni – da più parti (a ragione o a torto) – non pochi di quegli impedimenti venivan fatti risalire. E a reclamare questi irrigidimenti normativi – sebbene entro diversi limiti – non era unicamente il radicalismo antichiesastico della Estrema giacobina. Interveniva – a far sentire la sua voce – tutto un più largo moto di opinione: comprensivo di certe frange anche neo-guelfe, frustrate dal voltafaccia del 1848.

E si comprende come quel Legislatore [nel suo scostarsi operativo pratico da una linea riguardosamente separatistica] fosse tratto a volgersi alle esperienze pubblicistiche d’un tempo. Gli si offriva la comoda opportunità di prevalersi proprio del ricco armamentario pubblicistico del contestato ancien régime: di ritornare a far ricorso [“pro domo sua”] alle vetuste “potestà eminenti” – di sperimentato effetto pratico – alle quali l’Assolutismo pre-rivoluzionario usava commettere il controllo “giurisdizionalistico” delle persone e degli uffici (e delle patrimonialità) della Chiesa dominante. Si dava però adesso [è doveroso rilevarlo] che i “iura maiestatica” d’un tempo (il ius placeti o cavendi, il ius administrandi o amortizandi, e gli altri di volta in volta utilizzabili) si dava che quei iura venissero impiegati “ultra rationem”: difformemente dalla loro configurazione e dalla loro finalizzazione originarie. Essi più non erano applicati – come nel regalismo d’una volta – nel quadro d’un organico “sistema teopolitico”: “confessionistico”. Più non venivano diretti a rinsaldare e a presidiare il “vincolo di unione” dei Governi con le rispettive Chiese nazionali: ridotte bensí al rango di instrumenta regni (da vigilare e da dirigere) ma al tempo stesso ricoperte d’un fitto manto di benefìci e immunità. Più insomma non suppliva – a integrazione del sistema – l’officium advocatiae [non più “invasivo”, questa volta, quanto “favoritivo” e “protettivo”] quale del pari si assumeva competesse – in via istituzionale – al Principe cristiano dei secoli passati.

Al collaudato strumentario dell’antica “polizia ecclesiastica” non più ci si appellava – adesso – al fine mettere una “Chiesa nazionale forte” al servizio della compagine sociale complessiva. Ci si richiamava a quei poteri al fine opposto di preservarla – questa compagine sociale – proprio dai paventati abusi prelatizi. C’era [si diceva] da difendere l’integrità medesima dello Stato nazionale: «salus rei publicae suprema lex!». C’era da mantenere la Nazione (finalmente unificata) al riparo dalle minacce – reali o presunte – della «internazionale nera». «Corre oggi» – s’era arrivati a proclamare in una fase del dissidio specialmente accesa – «corre oggi una stagione in cui bisogna postergare ogni cosa, ed anche il culto delle dottrine più predilette, alle supreme necessità della Patria».
5. Si comprende come queste “intemperanze legislative” suscitassero – nella passione del momento – diffuse reazioni critiche, gonfie d’acceso spirito polemico. Non solo esse apparivano arbitrarie – e segnatamente vessatorie – a chi doveva subire a proprio carico gli esiti gravosi d’un simile “giurisdizionalismo sbilanciato” [volto a esclusivo vantaggio dello Stato: d’uno Stato per aggiunta ostile] ma offrivano anche il fianco – quelle diversioni operative – alle censure [meno roventi, non meno severe] dalle stesse frange più pacate del liberalismo moderato: quelle aliene – pur verso una Chiesa ostile – da indebite forzature illiberali.

E a questa deprecazione cosí intensa [quale séguita tuttora a riaffiorare in molte delle nostre ricostruzioni storiografiche] non mancavano – va detto – validi motivi di sostegno. Tanto più che ad essa finiva col dar esca la stessa animosità [poco aperta alla virtù della prudenza] di quei non pochi patrocinatori della Causa nazionale che – sempre nella passione del momento – non si davano pensiero di nascondere o attenuare (semmai ostentavano e accentuavano) le finalità sin “punitive” del proprio impegno antichiesastico. [«Se il clero c’è nemico» – si diceva – «occorre almeno disarmarlo»]. Neppure – poi – fu cura attenta dell’establishment liberale [degli stessi ambienti ai quali pur sempre stava a cuore il «culto delle dottrine più predilette»] di porre ben in chiaro le “ragioni ideali profonde” (e pur ve n’erano) che militavano a sostegno di certe scelte drastiche di politica ecclesiastica: risolutive per l’avanzamento civile del Paese. E’ un fatto che – nella prospettazione illustrativa che usava farsene anche in via parlamentare – certi interventi normativi perentori (capaci di suscitare tanto scandalo) venivano sin troppo spesso motivati in termini idealmente inappaganti: al metro di istanze (diciamo “poliziesche”) di “salute pubblica”, o al metro di istanze (diciamo cosí “ragionieristiche”) di “risanamento finanziario”. Ci si rifaceva – a questo modo – a circostanze in fondo occasionali: contingenti: legate alle difficoltà dell’ora.

Non ci si proiettava verso un più spaziante avvenire. Non li si riconduceva – quei provvedimenti normativi – [non lo si faceva con la dovuta chiarità ideologica] proprio al programma – politicamente irrinunciabile e politicamente indifferibile – dello stabilimento costituzionale d’un efficace “Stato di diritto”: d’uno “Stato moderno”, consapevole dei compiti civili di sua spettanza istituzionale. Dico d’uno Stato che – per essere all’altezza del suo ufficio – non può non preoccuparsi di riprendere in mano la gestione di quel vario assieme di servizi pubblici e di correlative potestà che – precedentemente – proprio la grigia inefficienza dell’apparato pubblico statuale aveva fatto sí che restassero rimessi (in tutto o in parte) alla attività “sussidiaria” in civitate della ecclesia regens e della ecclesia militans.Naturale che una simile «riappropriazione di competenze funzionali» (dianzi, in Italia, per secoli, dismesse dalla mano pubblica) comportasse un correlativo «adeguamento degli apparati strutturali della civitas». Ed era forza – per ciò stesso – che quel processo accrescitivo si risolvesse (di risulta) in una «limitazione funzionale e strutturale dei modi di supplenza in civitate della ecclesia»: fossero le relative mansioni esercitate dalla Gerarchia prelatizia, lo fossero dalle Corporazioni religiose, o dalle Confraternite laicali. Naturale – ancora – che un simile riappropriamento di funzioni suggerisse una «ridistribuzione delle risorse utilizzabili».

Si moveva dal principio pubblicistico della «appartenenza del patrimonio ecclesiastico ai fedeli»: e – quindi – della appartenenza di esso alla Nazione. E se ne ricavava il corollario della «devoluzione al pubblico bilancio» delle risorse finanziarie messe, a suo tempo, dai fedeli, a disposizione della Chiesa per il soddisfacimento sussidiario di quei compiti (di generale interesse) al cui esercizio – adesso – era direttamente deputato l’apparato pubblico civile. Restava però il fatto [quale il fondamento di questa o quella misura normativa] d’un accavallarsi disorganico di provvedimenti d’ispirazione eterogenea: sicché si dava che provvedimenti congrui e liberali restassero come soffocati sotto il peso d’altri interventi incongrui invece e illiberali: capaci – per giunta – d’una clamorosa risonanza.
6. Alla babele normativa venuta cosí determinandosi cercò di metter ordine [e in buona misura vi riuscì: per quanto lo consentissero le cose] la legge di stabilizzazione emanata all’indomani della “risoluzione militare” della Questione Romana. Celebrata dai suoi molti esaltatori – degradata dagli avversari delle Estreme (giacobina e clericale) a poco meno che un informe coacervo di proposizioni eterogenee – la Legge delle Guarentigie [sulle prerogative pontificie e sulle relazioni della Chiesa con lo Stato] presentava – è vero – più d’una incompletezza, più d’una incongruenza. Sul che doveva esercitarsi – per decenni – lo spirito polemico di generazioni di esegeti.

E tuttavia – se si dà peso [cosí come si deve] alle difficoltà grandissime da superare, rese più ardue dalla divergenza profonda di opinioni che divideva il Parlamento e lo stesso Esecutivo; se si tien conto delle non poche preoccupazioni internazionali e interne del momento; delle incertezze che gravavano sull’avvenire dello Stato unitario; se si pensa alla stessa novità della questione, mai sin allora presentatasi in quei termini a un popolo civile; e alla necessità assoluta d’affrontarla, comunque, senza indugi, nel momento più acuto del conflitto – se a tutto questo si riflette [cosí come si deve] non si può non riconoscere una nota di grandezza nella legge votata dal Parlamento nazionale. Forse non fu – la Legge del 1871 – quel «monumento di sapienza giuridica» da molti decantato. Essa – però – [con tutti i suoi difetti, con tutti i suoi accomodamenti praticistici] seppe adempiere il suo ufficio. A parte le proteste e i risentimenti e le disillusioni di coloro che auspicavano un sistema di più spiccata intonazione statualistica – e a parte le doglianze e le condanne e le professioni di martirio dell’apparato prelatizio e dei cattolici meno disposti ad accettare i nuovi tempi – la Legge seppe risolvere un problema pressoché insolubile: e seppe farlo in modo politicamente accorto. Fu soluzione – è vero – provvisoria: d’una provvisorietà però protrattasi per un lungo sessantennio: dimostratasi capace – benché demonizzata dal Pontefice – di dare operatività concreta (in tempi pur difficili) al gran principio di separazione: agendo a vantaggio – non solo della civitas – sí anche della ecclesia.

Altro – semmai – ciò che non si poteva risolvere per legge: che non si poteva scancellare iussu iudicis. Ed era l’odioso fardello di ostilità pugnace che tanti decenni di lacerazione (penosa e acrimoniosa) lasciavano in retaggio alla vita civile del Paese.
II
7. Non poteva evitare – il modo in cui s’era venuto realizzando il nostro Risorgimento nazionale – che a risultarne (ad unità ottenuta) fosse un rapporto di “vicendevole chiusura” [di sorda insofferenza] fra il nuovo regime politico e l’intera Chiesa cattolica d’Italia, presa nelle sue complesse diramazioni e componenti. Doveva stabilirsi – fra i due termini – come un diaframma (impenetrabile) di “incomunicabilità ideale”: onde accadeva che alla incomprensione tenace dei cattolici per i molti e seri problemi che il giovane Stato era chiamato a fronteggiare si accompagnasse – d’altro verso – una diffusa indifferenza del laicismo liberale per i temi interni alla cattolicità: per gli stessi fermenti di rinnovamento che nella realtà ecclesiale pur venivano prendendo vita. Ed era situazione dolorosa: specialmente amara nella fase di più esasperata ostilità. Era situazione – tuttavia – precorritrice [in un arco di tempo più spaziante] d’una migliore ordinazione – non dico dei rapporti di potere (per il momento compromessi) fra i due vertici gerarchici – ma del compiuto estrinsecarsi [nell’ambito comunitario complessivo] della esperienza civile e della esperienza religiosa: fattesi ormai libere da reciproci impedimenti e inframmettenze.

Se penosi e gravi erano i guasti cagionati da un cosí acceso antagonismo – per le lacerazioni che si davano nel vivo del tessuto comunitario generale – ebbe però anche a originarne come un processo di “decantazione ideale” delle posizioni rispettive dello Stato e della Chiesa. Successe [e fu fenomeno benefico] che ciascuna di tali realtà umane riservasse la sua sollecitudine unicamente agli interessi di propria specifica spettanza: senza perciò che ne seguissero quelle “contaminazioni” fra le due somme economie [della “politicità” e della “ecclesialità”] che avevano segnato in guisa marcatamente negativa tutto un passato millenario.Si dette che – forte dei suoi proponimenti laici – lo Stato (con qualche riprensibile intemperanza, ma più spesso con ponderata oculatezza) procedesse ad una secolarizzazione programmatica delle leggi e dei pubblici apparati: riducendo al minimo la componente impositiva e coercitiva del proprio ordinamento: rinunciando – più in specie – a farsi strumento d’attuazione autoritativa dei valori etici oggettivi patrocinati da una Potestà sacerdotale quanto si voglia prestigiosa. Significava sottoporre le persone umane all’incidenza imperativa d’una «legge moralmente neutra»: mettendole tutte in condizione di poter servire quella legge (e di poter servirsene) senza dovere con ciò venir in urto (senza dover scende a patti) con i propri convincimenti di doverosità. Si toglieva sí spazio a questo modo – nell’ambito civile – alla presenza ufficiale (e alla capacità d’impatto) della Chiesa.

Né più si concorreva – con gli strumenti potestatici civili – alla tutela e all’attuamento dei compiti ecclesiastici. Doveva però anche accadere [ed era, questo, un fatto inusitato: di straordinario impatto normativo] doveva anche accadere che – fedele ai suoi princìpi – lo Stato di diritto [superata la fase più accesa del conflitto] rinunciasse – per sua autonoma determinazione pubblicistica – a una gran parte di quei poteri d’ingerenza nell’«ordine proprio della Chiesa» che gli venivano dalla tradizione regalistica europea: ponendo – con questo – i presupposti d’una più piena libertà civile (nell’«ordine proprio dello Stato») delle istituzioni e delle persone ecclesiastiche cattoliche.Si dette – d’altro verso – che il mondo cattolico italiano [turbato dalla «esecrabile empietà delle dottrine liberali», e dalla scandalosa debellatio del Regno pontificio] si rifiutasse ai nuovi tempi. Si dette che [in ossequio alle ingiunzioni formali della stessa suprema Autorità sacerdotale: e come richiudendosi in se stesso] il cattolicesimo italiano manifestasse il suo dissenso (di più: la sua protesta) estraniandosi – ostentatamente – dalla partecipazione alla vita pubblica del Paese. Come – del resto – rassegnarsi al «fatto compiuto»? come piegare il capo alla «usurpazione cisalpina»?. Del pari però accadde [era inevitabile accadesse] che – col procedere degli anni – (non senza la crescente comprensione dei settori meno intransigenti delle superiori Gerarchie) il laicato cattolico ridimensionasse la propria opposizione.

Naturale che [messo di faccia a una sequela di problemi assai concreti che solo una solerte militanza amministrativa e politica poteva proporsi di risolvere] quel laicato prendesse – poco per volta – a riaccostarsi alle vicende della civitas: cercando [pur nel formale rispetto del «non expedit»] come tornare ad aver parte nella gestione della cosa pubblica. Velleitario – d’altro verso – che i ceti dirigenti del giovane Stato unitario contrastassero [di là dalle proclamazioni di facciata] un simile processo di ricomposizione nazionale.
8. Veniva cosí delineandosi – in via non “ufficiale” ma “reale” – un moto di ravvicinamento progressivo fra le due Parti contrapposte: destinato – alla lunga – a superare la situazione di stallo che s’era stabilita fra di esse nella prima stagione dello Stato unitario. Veniva riproponendosi di fatto fra i due Enti [“dissimulatamente”: ad onta del «non expedit» e della «idea di laicità»] un fruttuoso allacciamento funzionale: non “istituzionale”, stavolta, ma “diffuso”: non più (come in passato) stabilito fra i rispettivi Vertici gerarchici, ma fra i sottostanti ceti dirigenti. Doveva anzi succedere [e fu circostanza storica cruciale] che questo processo evolutivo (poco percepibile dapprima, poi sempre più palese, più tangibile) risentisse – nella sua carica dinamica – di taluni potenti fattori di metamorfosi sociale venuti frattanto profilandosi nella esperienza del Paese. Come nel mondo politico europeo cosí in Italia – proprio negli anni di più duro scontro fra Stato unitario e Chiesa cattolica romana – veniva prendendo consistenza un fatto nuovo d’importanza straordinaria.

A interferire era un che di destinato a pesare in via determinante sui modi operativi dei pubblici poteri, fino a tramutare le funzioni e il volto stesso dello Stato: un che di destinato insieme a incidere – con altrettanto peso – sui modi operativi della Chiesa in civitate. Dapprima con sporadiche avvisaglie – poi con sempre più energica irruenza – veniva avanzando il “quarto stato”: in veste di risoluto avversatore dell’assetto sociale stabilito. Premeva la folla infinita dei reietti: consapevole viepiù del proprio diritto, e della propria forza. Diveniva inquietante l’incombente “minaccia socialista”, a cui il giovane marxismo veniva procurando un supporto ideologico singolarmente suggestivo. E non poteva – questo crescente assillo – non far presa sugli ambienti moderati: laici o cattolici che fossero: costitutivi – dopo tutto – di un medesimo ceto dominante. Non poteva non convincerli a far “fronte comune” contro un “pericolo comune”. Si trattava – per essi – di mettere da un canto le astratte dispute ideologiche (e i fieri proponimenti di rivalsa) per ritrovarsi invece assieme – “unitis viribus” – sul solido terreno della prassi. C’era da agire di conserva: «per ricondurre» [si diceva] «le plebi traviate sulla via della giustizia e dell’amore». Impressionava la crescita politica dei “rossi”: sovversivi e miscredenti: sfrenatamente libertari: sprovvisti [si attestava] d’ogni remora morale. Era – il loro – un moto organico irruente: capace di insidiare le fortune politiche della oligarchia liberale, e quelle economiche della generalità indifferenziata dei beati possidentes.

In pratica – per porre a tutto questo un argine affidabile – c’era da trovare la maniera di sbloccare [oggi diremmo “sdoganare”] le masse elettorali cattoliche, neutralizzate dal «non expedit». Ed era programma – questo – di tanto evidente convenienza da meritare qualche avveduta concessione: non conta se poco riguardosa della purezza delle idee, della nobiltà dei sentimenti. C’era [fra i ceti abbienti] da superare l’assolutezza delle preclusioni formali irremovibili: delle demonizzazioni senza appello.
9. Vero che – per parte della Chiesa – s’era venuta attuando (dopo una fase di stretta ostilità) un’apertura accorta verso le rivendicazioni più impellenti [di equità] di cui si faceva patrocinatore fervente il Socialismo. Si pensi alla prima Epistula socialis: a quella decantata [addirittura mitizzata] Rerum novarum (del 1891) che – pur ribadendo a tutte lettere la condanna delle fondazioni dottrinarie del movimento operaio, e quella dei suoi metodi di lotta – aveva portato in effetti al pullulare d’una svariata quantità di iniziative cattoliche di vocazione popolare. Vero però anche che – alla prova dei fatti – il movimento sociale cattolico (suscitato dall’Enciclica leonina) dovette sottostare ai ripensamenti prudenziali della parte più autorevole della Gerarchia sacerdotale (a cominciare dallo stesso Leone XIII della Graves de communi di dieci anni dopo) e dovette patire un po’ dovunque l’azione frenante del laicato di più alto rango, sensibile ai medesimi interessi coltivati dai ceti dirigenti liberali.

Tutto preludeva – insomma – ad una intesa (certo “informale”, ma non per questi meno solida) fra gli inconciliabili avversari d’una volta. I quali tenevano sí ferme le reciproche pregiudiziali di principio: ma non riuscivano a resistere alla corposa seduzione dell’utile sensibile. Dopo alterne vicende – governate dalle duttili evoluzioni giolittiane – questo anomalo connubio finí con l’essere contratto nell’unica maniera (artificiosa) che l’indole dei tempi consentiva al genio transattivo delle due parti in causa. Dico del modo sotterraneo (semi-clandestino) in cui – fra il 1912 e l’anno successivo – si giunse al poco limpido marchingegno elettoralistico del Patto Gentiloni. Fu questo [nel suo disinvolto “amoralismo”: oggi diremmo “pragmatismo”] fu il Patto Gentiloni il rogito capace appunto di procedere all’assemblaggio praticistico di energie politiche ed umane di caratura ideale diversissima: proporzionandone il dosaggio, con sapienza, e indirizzandole a un medesimo obiettivo.
10. Del resto [ad onta delle sue vantate virtù solidaristiche] la stessa Epistula socialis aveva – a suo tempo – contribuito alla frantumazione del ceto popolare. Di contro al monito marxiano del 1848 [«proletari di tutto il mondo unitevi!»] la Rerum novarum era sin valsa a dividere quel ceto: contrapponendo a quelle socialiste le masse popolari cattoliche: – soprattutto urbane e operaie [le prime] miranti al rovesciamento radicale dello Stato borghese; – soprattutto rurali [le seconde] istruite (o istruibili) a un blando ben ordinato riformismo.

E proprio questo assetto bipolare della massa elettorale – saputo amministrare con sagacia – poteva diventare il punto di forza di un nuovo sistema di potere capace di salvaguardare le fortune degli ambienti egemoni. Si presentava [è vero] – ed era forza preoccuparsene – un non secondario inconveniente. Si dava [in un sistema elettorale marcatamente selettivo quale quello antecedente al 1912] che le folle contadine potessero esercitare un minor peso a paragone del più evoluto elettorato socialista. A ristabilire l’equilibrio [con tempestiva appropriatezza] aveva però appunto provveduto la riforma “progressista” di quell’anno. Parlo del “suffragio universale” [“semi-universale”] che – provvidenzialmente – consentiva al proletariato delle campagne [ai «buoni contadini, fedeli alla religione degli avi»] di bilanciare la forza elettorale del proletariato delle fabbriche. Onde non rimaneva che procedere alla stipulazione – sottobanco – d’un apposito strumento negoziale: del Patto Gentiloni – giustappunto – in base al quale i candidati governativi liberali (non conta se massoni o liberi pensatori, non conta se giurisdizionalisti in altri casi) ottenevano di attingere – nei rispettivi collegi uninominali – all’abbondante serbatoio dei voti cattolici. L’ottenevano «al prezzo d’una messa»: in cambio della sottoscrizione d’un pacchetto di clausole favoritive della Chiesa: non conta se antitetiche a certe basilari istanze laiche.
11.

L’operazione – in prima istanza – doveva rivelarsi efficacissima. Ben oltre duecento “candidati governativi” (non altrimenti reclutabili) furono eletti a questo modo: tanti da dare – sul momento – all’apparato di potere dell’Onorevole Giolitti [e al liberalismo autoritario quale da lui inteso] l’illusione d’essersi assicurato l’avvenire. Del che – sul momento – gli uni e gli altri [e i liberali e i clericali] si compiacquero. Era però destino che – nel corso precipitoso della storia – quest’ordine artefatto avesse vita breve. A cancellare d’un sol tratto molti dei condizionamenti del passato – e soprattutto a imporre una netta chiarificazione delle parti – doveva sopraggiungere (con le sue rudi prese di coscienza, e i suoi rimescolamenti sociali) la tragica esperienza della guerra. Superata nei fatti la Questione romana – con tutte le sue complicazioni – i cattolici italiani («cittadini come tutti») ormai sentivano di potere e di dover entrare a pieno titolo nell’arengo politico nazionale: di potere e dover farlo in proprio, a viso aperto: senza compromissioni, o coperture. E proprio il conseguente costituirsi – all’indomani del conflitto – di un autonomo partito dichiaratamente cattolico [anche se non confessionale: anzi geloso della propria indipendenza dalle Gerarchie sacerdotali] proprio questo fatto nuovo valse a mettere sossopra lo scenario politico nostrano. Erano due – adesso – i partiti politici [i partiti politici “di massa”] che premevano sull’apparato di potere liberale, e lo stringevano alle corde: specie dopo l’avvenuta introduzione – nel 1919 – del sistema proporzionale (voluto proprio dai cattolici) che metteva in crisi le vecchie combinazioni clientelari, magari sostituendole con altre.

E questa duplice minaccia – se investiva in prima istanza le posizioni parlamentari della oligarchia liberale – era però tale da investire (e da rischiare di travolgere) tutt’intero il quadro dei ceti dirigenti nazionali: inclusi quelli di matrice cattolica, che guardavano con apprensione a certo lamentato populismo del neonato Partito popolare. Ne furono sospinte – queste componenti moderate – a secondare [a non ostacolare, quanto meno, nella misura in cui avrebbero dovuto] una soluzione “autoritaria” dei propri problemi economici e politici: atta a preservare l’annosa egemonia sociale di cui le si voleva spodestare. Tanto più che – nel frattempo – la pressione socialista aveva tratto più possente impulso per effetto dell’esperienza eroica ed esaltante della Rivoluzione d’Ottobre: esperienza – però – tanto inquietante (tanto sconvolgente nei suoi esiti) da conferire alla “minaccia rossa” un senso di pericolosità angosciante. E stava poi di fatto che – da anni – erano venute emergendo ed affermandosi (all’opposto estremo dello scacchiere politico italiano) talune forze nuove: contestatrici della pochezza d’un sistema in fase di avanzata senescenza: nemmeno in grado – nel suo rammollimento – di mettere a tacere i sovversivi. In netta antitesi alla concezione liberale e parlamentare dello Stato [ispiratrice, a loro dire, d’una «imbelle Italietta», votata a misero destino] quelle novelle energie palingenetiche miravano invece a magnificare a tutta voce i “valori nazionali”: a risvegliare – nel ricordo delle passate grandezze – le sopite virtù del nostro Popolo: in ragione d’una politica di forza, finalmente espansionistica.

Uscito irrobustito dalla guerra, questo movimento nazionalistico doveva incontrarsi – in fine – col Fascismo: al quale [sotto la guida d’un uomo scaltro e ambizioso, ignaro di qualunque remora morale] soccorreva la vigorosa volontà di ergersi – a ogni costo – a nerbo direttivo della Nazione. Rispondeva al cinismo dei ceti dirigenti [quale ne fosse l’estrazione, laicista o clericale] rispondeva al loro corposo tornaconto che – a propria salvaguardia – essi non esitassero a valersi della risolutezza aggressiva (senza scrupoli) e della prepotenza di questi nuovi arrivati: cosí da fare di costoro il proprio braccio secolare. Si riprometteva – con ciò – la classe egemone di conservare la propria supremazia reale, a dispetto della crisi di rappresentatività politica nella quale era incappata nell’immediato dopoguerra.
12. Imponenti gli sviluppi che dovevano seguirne in fatto di politica ecclesiastica. Respinto, nei suoi medesimi canoni fondanti, il programma laico liberale – il Nazionalismo e al suo séguito il Fascismo propugnavano una revisione a tutto campo dell’atteggiamento dello Stato nazionale nei confronti della Chiesa apostolica di Roma: in termini tali da permettere alla nuova Italia di prevalersi con profitto (a fini di potenza) della ratificazione carismatica del Cattolicesimo: alla quale lo Stato liberale aveva improvvidamente rinunciato in freddo ossequio a pallidi moduli ideologici. C’era da ripudiare – alla bonora – lo sterile impianto cavouriano: fatto proprio dalla Destra storica, e non saputo abbandonare sin allora.

C’era da soddisfare – per contro – all’esigenza d’un raccordo Stato-Chiesa di rinnovata ispirazione: non concepito alla maniera della “ordinata colligatio” della pubblicistica di Curia [d’una ordinazione rispettosa della preminenza spirituale del compito ecclesiastico] ma commisurato piuttosto al nuovo dogma pubblicistico della primarietà della Nazione quale impersonata dal Regime. Stavano – in questo – le premesse d’ordine ideologico perché la politica ecclesiastica italiana [finalmente sbarazzatasi del peso d’antiche remore inibenti] si spingesse ben al di là dei limiti del “conciliarismo” venuto frattanto profilandosi. Sinché – in effetti – i princìpi del liberalismo erano restati un che di vivo e di vitale nella esperienza del Paese: sin tanto che vi avevano ispirato l’azione del Governo] nessun passo formale era stato computo sulla strada d’una conciliazione ufficiale dello Stato con la Chiesa che fosse tale da implicare una qualche riproposizione [ancorché accordata ai tempi] del “sistema unionistico” di antica memoria. Né avrebbe potuto essere altrimenti a voler appunto mantenersi nella logica d’uno Stato liberale laico. S’era sí dato – nelle cose – un superamento sostanziale [“rebus ipsis et factis”] dell’annoso dissidio fra i due Enti: ma questo processo distensivo era venuto poco per volta realizzandosi nel generale contesto d’un sistema che era “separatistico” e che voleva seguitare ad esserlo. C’erano stati [è vero] – nell’immediato dopoguerra – taluni sporadici contatti fra Statisti italiani e diplomatici di Curia, in vista d’una ratificazione anche formale del consolidato status facti determinatosi in Roma dal 20 settembre del ’70.

Contatti – tuttavia – solo ufficiosi: rimasti lì senz’esito di sorta. Tutto diverso – invece – il programma politico fascista. Non più scissione dello Stato dalla Chiesa: in ubbidienza a una fisima ideologica “autolesionistica”: non d’altro capace [si asseriva] che di corrodere l’intima compattezza del Popolo italiano. Ma rinnovata colleganza con la Chiesa: tale da fare – di quest’ultima – un prezioso strumento fortificativo del Potere politico in Italia: valorizzativo della presenza d’Italia in tutto il mondo. Solo con l’avvento al potere del Fascismo doveva prendere forza politica effettiva il programma conciliatoristico: quello che si riproponeva [nientemeno] di «restituire l’Italia a Dio» e «restituire Dio all’Italia». E solo col Fascismo quel programma assunse una più ampia dimensione: in ciò che esso più non si restrinse alla questione propriamente romana [secondo proponimenti già nutriti da un Nitti o da un Orlando] sí piuttosto si estese alla instaurazione di un organico regime di collegamento con l’intera Chiesa cattolica italiana.
13. Si riprometteva Mussolini – sin dall’avvio della sua azione di governo – di rappacificarsi a tutto campo con l’Autorità Apostolica: di poter farlo mantenendo però fermo il postulato della “missione totalizzante” dello Stato. E – forse – egli sarebbe riuscito a conseguire l’obiettivo alle sue proprie condizioni se non fossero intanto capitati eventi sconcertanti: tali da indurlo a addivenire all’accordo – per più tratti – alle condizioni poste per contro dalla Chiesa.

Doveva cioè succedere che [in luogo di muovere, cosí come voleva, da una posizione politica di forza] il Governo fascista si trovasse – a un certo punto – a aver esso bisogno dell’appoggio della Santa Sede: la quale [rassegnata ormai da un pezzo alla perdita dei suoi possedimenti territoriali, e tutto sommato garantita nella propria indipendenza] ben era in grado di trarre un proprio cospicuo tornaconto dagli infortuni della Controparte. Vero che il delitto Matteotti era venuto a spazzare brutalmente ogni superstite illusione circa un possibile svolgimento legalitario del Fascismo: tanto da isolarlo (in circostanze fattesi drammatiche) dalle restanti forze politiche italiane. Provvidenziale – tuttavia – [per il Fascismo] la susseguente piega presa dalla crisi. Poco accetta doveva difatti rivelarsi alla grigia apprensività dei benpensanti la prospettiva (venuta delineandosi in sede aventiniana) d’una intesa di governo fra popolari e socialisti. Era valso – un simile progetto – a ravvicinare a Mussolini le frange maggiormente timorate della società italiana: quelle [gelose del “suum particulare“] che non sapevano onorare i propri sentimenti egualitari e democratici sino a accettare di buon animo una tanto allarmante evenienza. Risolutivo – in quel frangente – proprio l’atteggiamento della Chiesa: la quale – benché a scapito del partito popolare dei cattolici – dette a vedere di seguitare comunque a ravvisare nel Fascismo il «minor male»: capace – com’esso restava dopo tutto – di assicurare la tranquillità sociale, anche se a prezzo di qualche esuberante smodatezza.

Con ciò venivano poste le premesse d’una larga intesa. Da questa il Fascismo si attendeva la consacrazione della propria legittimità: si attendeva il proprio affrancamento da ogni residua diffidenza delle classi medie, politicamente amorfe. Alla Chiesa di Roma – d’altro verso – si offriva l’occasione [da non perdere] di ottenere – in cambio d’un po’ di comprensione – un mucchio di vantaggi ben concreti. Doveva riuscire a Mussolini – in sede pattizia – di contenere a poca cosa le concessioni territorialistiche alla Santa Sede. Si direbbe che quella dei “chilometri quadrati” fosse – per uno Statista del suo calibro – la preoccupazione più importante: l’assillo che più vivamente toccava la sua mentalità. Meno sensibile doveva invece dimostrarsi – il Capo supremo del Fascismo – a temi e a valori civili d’altro genere: di meno palpabile evidenza. Parlo della imparzialità del pubblico apparato: della unità della giurisdizione dello Stato. Parlo della uguale dignità dei cittadini: d’un loro trattamento civile paritario: d’un equo presidio delle loro libertà. Valori civili – tutti questi – ridotti a mero “oggetto di commercio”: a “merce di scambio” pura e semplice: da poter sacrificare senza remore alla convenienza del momento. Tant’è che Mussolini [pur di ergersi a risolutore storico della Questione romana: d’una questione già tolta di mezzo dalla storia] non doveva peritarsi di pagare alla esigente Controparte un prezzo segnatamente alto: inusitato nella prassi concordataria.

Dico d’un privilegiamento esorbitante – nell’ordine proprio dello Stato – delle persone e delle istituzioni ecclesiastiche cattoliche.
14. Era – cosí – «attraverso il Concordato» [per riprendere una proposizione del Gentile] che il Governo otteneva – col Trattato – il riconoscimento ecclesiastico formale d’uno stato di fatto ormai consolidato. Laddove – per sua parte – era «attraverso il Trattato» che la Sede Apostolica di Roma giungeva a un Concordato tanto condiscendente verso i suoi interessi. E – nei difficili anni appresso – essa [la Sede Apostolica di Roma] doveva esser sí tratta (a più riprese) a protestare il proprio malcontento di faccia a certe intemperanze presto palesate dal Regime. Pochi però i fatti che seguivano concretamente alle parole. Sembrava starsene – la Chiesa – in prudente e paziente attesa di tempi più propizi. Essa seppe anzi prevalersi dei torti lamentati per dissociare a poco a poco le responsabilità sue proprie da quelle del Fascismo. A pararlesi di fronte era uno spericolato regime cesaristico: esposto ai capricci della sorte. Laddove – forte del suo realismo politico di sempre – essa [la Chiesa] poteva far sicuro affidamento sulla propria straordinaria capacità di «durare nel tempo»: a dispetto delle vicissitudini più varie. Non poteva – il tempo – non venir a premiare (generosamente) questa sofferta perseveranza della Chiesa nel suo ius quaesitum.Dovevano – i Patti del 1929 – [pur espressivi della discutibile alleanza fra un Governo autocratico e una Chiesa anch’essa autoritaria] sopravvivere al drammatico passaggio dal vecchio regime totalitario al nuovo sistema democratico.

Dovevano – addirittura – uscirne rafforzati: cosí da erigersi [agli occhi della opinione corrente e dei politici di carriera: sin tropo spesso alieni, l’una e gli altri, da astratte fisime ideali] a punto di riferimento di rigore nello scenario politico italiano. La Chiesa stessa – per sua parte – s’è sí proclamata pronta [lo sappiamo] a rinunciare all’esercizio di certi suoi diritti ove potesse venirne in discussione la «sincerità della sua testimonianza». Non ha però creduto che – nel caso – ricorresse una qualche preoccupazione di tal sorta.
* * *
15. E’ venuta – sappiamo – diffondendosi la tesi storiografica [di origine cattolica: ripresa, in epoca craxiana, da più d’un pubblicista “laico”] che – richiamandosi a questo o quell’aspetto della vicenda nazionale – reputa di poter individuare un nesso di «continuità» («consequenzialità») fra la politica ecclesiastica che fu propria dell’Italia liberale (per lo meno dei suoi ultimi Governi) e la politica ecclesiastica fascista. Ciò quasi che il Fascismo [magari con qualche zelante esorbitanza] non abbia – in fondo – se non tratto a naturale compimento il moto conciliatorista già avviato dallo stesso stabilimento liberale. E’ tesi – infatti – specialmente attenta [a me parrebbe] a liberare dalla sua «colpa originaria» [dall’«ipoteca fascista»] il regime concordatario felicemente restaurato nel 1984. Ci si è come voluti riallacciare – “omisso medio” – alla accreditata autorità [«omni suspicione maior»] degli Statisti dell’Italia pre-fascista.

Li si è resi – quei Padri della Patria – mallevadori di certa prodigalità mussoliniana: quasi che ciò bastasse a dissociare dai «sacri egoismi del Regime» (riportandola a più nobili propositi) l’operazione del 1929: facendo della «urgenza di legittimazione» (sentita allora intensamente dal Fascismo liberticida) – non la «causa finale» (prioritaria) di certa corrività verso la Chiesa – ma un semplice «accidente»: valso soltanto a accelerare i tempi d’una soluzione politica (storicamente equanime) alla quale già preludevano – perentoriamente – gli irresistibili Disegni della Storia. Non è [intendiamoci] che facciano difetto – nella versione italiana dell’esperimento liberale – diversioni (anche importanti) da una linea separatistica correttamente intesa: tali da poter esser assunti – prima facie – a “precedenti liberali” della politica ecclesiastica fascista: quasi a “prologo” di essa.. Molteplici – del resto – gli episodi [non riportabili soltanto alla materia delle relazioni con la Chiesa] che – più o meno in tutto il corso del nostro esperimento liberale – stanno in realtà a testimoniare il fatto d’un non irrilevante “scollamento pratico” fra “azione di governo” e “purità ideologica”. Dico del ricorrente opportunismo di quella borghesia emergente che [pur riconoscendosi nello Stato liberale, e in esso riponendo le proprie aspettative] non sempre – dinanzi all’utile sensibile – sapeva tener fede [con sofferta partecipazione emozionale] alla pedagogia e all’etica politica del liberalismo.

Tant’è che – non a torto – vien oggi diffondendosi la propensione storiografica a operare, non tanto una profonda revisione, quanto un ribaltamento vero e proprio di certi schemi mitografici osannanti, che troppo a lungo hanno signoreggiato nella scuola. A presentarcisi davanti è una fitta sequela di episodi, a volte sconcertanti: segnatamente in grado [al loro tempo] d’infiacchire un sistema autenticamente liberale: capaci di alterarne la logica ideale, e di allentarne l’intima tensione.
16. Certo – per stare al nostro tema – il fatto di questa solerte inclinazione alla forzatura dei princìpi [il fatto di questa vocazione, se può dirsi, a un ciclico eccesso di potere] acquisterebbe – al nostro sguardo – un peso determinante (in termini di “continuità di svolgimento”) se fossimo chiamati adesso a interessarci della «storia del costume»: del capitolo – mettiamo – relativo alle vicende dell’«autoritarismo». Questo [l’autoritarismo] non fu invenzione del Fascismo: anche se il Fascismo seppe largamente surclassare i suoi maestri. E questo va riconosciuto, con lealtà. Però tutto il discorso cambia tono – e di parecchio – se invece ci si ripromette di tracciare non la «storia della mentalità» ma quella «delle idee». C’è che allo studioso – in questo caso – non tanto sta di prender atto di certi accadimenti (per come effettivamente sono stati) cercando di coglierne i motivi e il grado d’incidenza nel vivo della relazionalità comunitaria, quanto gli tocca di ingegnarsi a penetrare – per come meglio gli riesce – nell’intima sostanza giuridica-ideologica-politica degli eventi di vita reale che gli si parano davanti.

E proprio la mancanza d’una disamina critica del genere è il difetto addebitabile – a me sembra – al «giustificazionismo» della tesi storiografica in esame: la quale – in definitiva – «addebita al sistema liberale» [allo stesso «pensiero» che lo informa] i «modi» (anche scorretti) della sua «attuazione pratica»: inclusi quelli che – nei fatti – abbiano proprio agito «in contraddizione frontale col sistema».Non basta – insomma – prender atto [se si vuol uscire dal generico] delle “forzature ideologiche” e degli “aggiustamenti praticistici” d’un tempo per giungere senz’altro a scorgere – nell’operato dello staff liberale – i prodromi di quella che poi sarebbe stata l’operazione del 1929. Per contro non si può omettere di chiedersi se per davvero quei pretesi “precedenti” possano esser ricondotti alla “logica” [alla “fisiologia”, se si può dire] del sistema liberale, o se essi non ne costituiscano piuttosto una “degenerazione patologica”: perché frutto [lo dicevo] d’uno sviamento pratico della “oligarchia liberale” dalla “ideologia liberale”. Cosicché quella pretesa “continuità di svolgimento” non altro semmai concernerebbe che gli improvvidi aspetti “illiberali” della politica che pur si diceva “liberale”. Come dire – in ultimo – che la tesi storiografica in esame finisce col vedere un “principio di continuità” proprio là dove invece v’è “frattura”.
17. Non commendevoli – certo – le lamentate deviazioni della oligarchia liberale dalle autentiche istanze liberali: mai però [va detto] quelle infedeltà si spinsero oltre un certo segno.

Mai esse superarono [né avrebbero potuto] un certo “punto di rottura”: mai infransero quel “limite ideologico” al di là del quale [a dispetto d’ogni sapiente sforzo giustificatorio] esse avrebbero perduto qualunque possibilità d‘esser ancora ricondotte nel sistema: sia pure come “espressioni distorte del sistema”, o come “superfetazioni del sistema”. Spesso [è vero] l’establishment liberale ha creduto di poter gestire i suoi princìpi con disinvolta elasticità: ed è potuto giungere a contraddirli in più d’un tratto. Mai – però – [con tutti i suoi difetti, con tutte le sue colpe] esso s’è potuto spingere tant’oltre da giungere a rinnegare il fulcro ideale del sistema di cui pretendeva d’esser interprete e d’essere attuatore: nel quale pretendeva di restare. Altrimenti lo stabilimento liberale avrebbe cessato – per ciò solo – di «essere se stesso» [d’essere appunto «liberale»] per trasformarsi in un qualcosa di diverso: di «non liberale», di «illiberale» addirittura. Che – a ben vedere – è proprio quanto è successo col Fascismo: allorché larghi strati societari egemoni [che più non si riconoscevano nel sistema liberale, o in esso più non riponevano fiducia] si son fatti fautori e si son fatti artefici d’un sistema sin sfrontatamente «illiberale». Di questa involuzione dell’ordine giuridico italiano non ci si può se non dolere da chi nei princìpi della laicità liberale séguita tuttora a riconoscersi. E tanto più questo rammarico è profondo in quanto si rivela all’evidenza come il lamentato appannamento del «principio di separazione» [chiave di volta del liberale Stato di Diritto] non si sia ristretto – nella nostra Italia – a un semplice periodo interinale [benché lungo] della vicenda Stato-Chiesa: racchiuso (se cosí può dirsi) “fra parentesi”, per poi restare superato dall’evolversi della nostra esperienza nazionale.

S’è dato qualcosa di più duraturo – nel sentir comune – e di più grave: e non a causa – stavolta del Fascismo – sí piuttosto della gestione riservata alla materia successivamente alla restaurazione democratica. E’ intervenuto un inquietante «ottundimento di sensibilità ideale». S’è dato [per effetto d’una sorta di «acquiescenza storica»] che il privilegiamento in civitate della ecclesia abbia perduto ogni carattere di eccezionalità e di contingenza: cosicché – agli occhi dei più – il sistema [ormai «normalizzatosi»] ha finito con l’apparire senza meno come una acquisizione ferma e certa del passato, inscritta a pieno titolo nella vicenda del Paese. Col che [nel solco della «smobilitazione ideale che segna il nostro tempo: giunta, sappiamo, a sentenziare la «morte delle ideologie»] si perde il senso della «dialetticità» del progresso civico degli uomini: qual è proprio alimentato da un confronto ideologico tenace fra modi opposti e di pensare e di sentire. Ora, non è che io voglia tessere l’elogio d’una contenziosità fine a se stessa: né quello d’una conflittualità ideologica lacerante, condotta alla maniera d’un “bellum omnium contra omnes”. Non è questo l’impegno umano che reputo auspicabile: ma quello (ben giovevole) che si esprime nelle forme d’una franca competizione costruttiva, che voglia trarre impulso dalla diversità (sin radicale) delle umane esperienze: non soltanto pratiche, ma etiche e spirituali e culturali.

Ci si può certo ripromettere di raddolcire la crudezza d’un troppo virulento antagonismo: di eludere le secche d’un polemismo troppo puntiglioso. Bisogna guardarsi [prima ancora] da certe demonizzazione costrittive: da certi ideologismi paralizzanti. Non ci si può – però – sottrarre a quella competitività dialettica [«mediata dalla storia»] che è insostituibile strumento vivificatore delle vicende che passano fra gli uomini.
*Piero Bellini, professore emerito di storia del Diritto Canonico, è intervenuto al Seminario di LeG dedicato al tema Democrazia e Laicità: i Maestri, che si è tenuto al Cassero di Poggibonsi, il 24 e 25 aprile 2008.

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