L’uomo nella Renault rossa

08 Mag 2008

Il nove maggio del ’78 era in corso uno sciopero dei poligrafici e l’indomani “Il Giorno” non sarebbe uscito. Noi della redazione romana eravamo molto tesi, perché ci aspettavamo da un momento all’altro qualche brutta notizia dalla prigione del popolo in cui Aldo Moro era tenuto ormai da 55 giorni. Il nostro nervosismo aveva fatto sì che le maestranze accettassero l’ipotesi di una staffetta di vigilanza: se fosse successo qualcosa, lo sciopero sarebbe stato sospeso: era davvero impensabile che il giornale su cui il presidente della Dc scriveva i suoi articoli non fosse in edicola nel momento in cui la vicenda fosse arrivata a una conclusione.
Eravamo dunque nella redazione di largo Goldoni, quando cominciò a circolare la voce di una Renault in via Caetani. Avvertimmo il direttore Afeltra a Milano e corremmo, tutti, verso quell’angolo della vecchia Roma dove forse c’era Moro, vivo o morto. Morto, pensammo. Non poteva che andare a finire così, una storia brutta, orrenda da ogni punto di vista.
Sono passati trent’anni e per alcuni di noi che allora eravamo giovani, è passata una vita. La storia italiana è corsa via, mi pare, tra una repubblica e un’altra, tra molte altre tragedie e molti momenti di speranza, assai spesso tradita. Delusioni e pensieri, i ricordi di una professione, quella di giornalista, così bella e così difficile: ma mai così difficile come durante quel sequestro, quando imparammo davvero a fare cronaca (tutto ciò che sapevamo fare prima fu inadeguato alla situazione), ad avere senso di responsabilità, a non strumentalizzare i fatti e le voci.

Credo che si possa dare un giudizio positivo del comportamento dei media di allora (si chiamava semplicemente “informazione”), anche se purtroppo è bastato poco a tornare indietro, a far cadere sulla professione un marchio di inaffidabilità, quando non di servilismo o peggio ancora.
Di corsa fino a via Caetani e lì a pochi passi dalle Botteghe Oscure, cominciava il finimondo. I più svelti di noi riuscirono a sbirciare dentro quella Renault rossa, attimi prima di esser allontanati. Assistemmo al lento scorrere della Casta di allora, ai segni di croce anche dei laici più impenitenti, a lacrime vere, alla disperazione di tutti coloro che vedevano il buio nel futuro del nostro Paese. Le maschere del potere. Ci chiedevamo da dove fosse piombata nel cuore di Roma, quell’auto con Moro ucciso, ci guardavamo attorno in cerca di sostegno amico, ci sentivamo persi in quel mare di violenza contro un piccolo uomo solo e indifeso, abbandonato da tutti. Cercavamo di pensare al volto del male, il male assoluto: chi aveva premuto la skorpion, chi aveva dato il colpo di grazia.
Eravamo stanchi, noi giornalisti delle redazioni romane. Provati da quel sequestro infinito, nessun giorno di riposo, nessuno di ferie: non avremmo mai potuto abbandonare le nostre postazioni, sotto casa di Moro, nei palazzi della politica, in quelli degli inquirenti. Avevamo inseguito l’arrivo delle lettere, dei comunicati delle brigate rosse, avevamo imparato a lavorare insieme, cronisti di testate diverse, per poter confrontare quel poco di informazioni e notizie che ognuno riusciva ad avere.

Poca concorrenza, pochi scoop, molta collaborazione. Questo è il mio ricordo di come lavorammo allora. E a tarda sera una sorta di punto della situazione: distinguere le voci e le indiscrezioni da ciò che realmente era accaduto era davvero difficile. Spesso inseguimmo la ricerca della prigione: di notte, di mattina presto, al tramonto. Nell’agro romano, sul litorale tra le villette dei villeggianti. Tra i ruderi dell’antica città. Ovunque. Il giorno del Lago della Duchessa mi ritrovai su un elicottero dei carabinieri a sorvolare la distesa ghiacciata dove, ovviamente, nessuno si era sognato di andare a gettare il corpo di Aldo Moro. L’elicottero sfiorava la superficie e io tremavo di paura. Trasmisi il mio articolo dall’auto di un collega del Corriere della Sera, l’unico che aveva un telefono, e che a turno aiutava gli altri.
Moro non si trovò durante il sequestro e ci sono voluti trent’anni o giù di lì perché la mia personale convinzione che non fosse stato cercato sul serio, diventasse quasi un luogo comune. Oggi è facile dire (lo dicono tutti): Moro fu rapito dalle Brigate rosse ed è sbagliato cercare altre intrusioni; ma è vero che i grandi servizi segreti americani e sovietici (Cia e Kgb) non fecero nulla per aiutare a trovarlo. Moro doveva morire. La sua politica era di ostacolo agli interessi delle grandi potenze, e in questo senso anche qui in Italia ci furono coloro che si adoprarono perché fosse ucciso. Oggi si sa quasi tutto, non tutto. Sono stati scritti migliaia, credo, di libri e di saggi, sono state analizzate parola per parola le lettere dal carcere, e analizzato il memoriale.

Rileggerlo, ogni tanto, ci spiega qualcosa in più della realtà italiana che Moro conosceva così bene e che tanto lo inquietava.
Noi che fummo cronisti allora non abbiamo mai smesso di seguire le rivelazioni, le conferme, il persistere dei misteri. La curiosità ci assale all’improvviso, per qualche strano riferimento casuale. Un nome, una data, una dichiarazione. Molte, dunque, le conferme. Ad esempio su quel comitato di crisi che era stato messo su da Cossiga al Viminale e che pullulava di iscritti alla P2. Da un po’ di tempo anche l’inviato speciale del presidente degli Stati Uniti a seguire la crisi, Steve Piecczenick ha cominciato a dire qualcosa. Qualcosa di molto inquietante perché addirittura racconta di aver manipolato le Br affinché la decisione finale fosse l’uccisione di Moro, “che doveva essere freddamente sacrificato per la sopravvivenza dello Stato”. E poi, in fila: la prigione del popolo che poteva esser trovata, ma non fu veramente cercata, i viaggi delle brigate rosse fra Roma e Firenze dove si riuniva la direzione strategica, il mistero di via Gradoli e della seduta spiritica con Prodi, la scoperta della sede a Parigi della scuola Hyperion, luogo di incontro fra i terroristi e gli uomini del Kgb, la consegna ad Andreotti delle carte di Moro trovate a via Montenevoso a Milano da parte del generale Dalla Chiesa rese pubbliche forse senza la parte su Gladio che fu ritrovata più di dieci anni dopo sempre nello stesso appartamento, le notizia esclusive pubblicate da Pecorelli, e via dicendo.

Misteri che solo un armadio della vergogna che improvvisamente si aprisse potrebbe oggi svelare del tutto.
Ho sempre pensato che aver vissuto la cronaca di quei giorni abbia dato un qualcosa in più per capire il senso di tutta la storia e anche il seguito, i processi, le carte. Ci ha dato forse un mezzo in più per giudicare la verosimiglianza di certe tesi, la assoluta inconsistenza di altre. Lo sforzo di capire, ci ha fatto apprezzare Moro e la sua politica molto nel profondo. E ci ha consentito, in anni ancora lontani, di raccogliere dai protagonisti della politica di allora alcune loro idee su quello che era accaduto, sui perché del rapimento e della fine di Moro. Ho sentito Ugo La Malfa e poi Giovanni Spadolini insistere sul fatto che nessuno aveva mosso un dito per trovare davvero l’ostaggio, ed entrambi convinti che Usa e Urss ne sapessero molto di più ma non avessero interesse a salvarlo. Mi disse Bettino Craxi che lui restava colpito ogni volta che pensava alla presenza di Licio Gelli nelle stanze vicine al vertice del governo. Ho sentito Ugo Pecchioli : “Noi non potevamo assolutamente trattare, non potevamo dare alcuna legittimazione ai terroristi: un fatto del genere avrebbe potuto un giorno giustificare l’interesse di una nazione straniera a loro sostegno”: immagino che parlasse comunque del blocco sovietico. Questa era la grande paura del vertice del Pci.
Non andava bene agli americani, una politica, come quella di Moro, volta a sdoganare il Pci per renderlo un partito democratico, per aiutarlo (come faceva anche La Malfa) a diventare una possibile alternativa di governo.

Ma non andava bene nemmeno ai sovietici che il Pci si trasformasse fino ad accettare, come fece, la Nato e l’occidente. Le Brigate rosse sapevano tutto questo? Credo proprio di sì, tutto si può dire ma non che i loro capi fossero ingenui o sprovveduti. Non volevano il capitalismo e nemmeno il compromesso storico.
Quell’uomo rannicchiato e ucciso in quella Renault ci parve così fragile. Ma oggi si può, si deve dire che è stato un eroe, un eroe sacrificato sull’altare della democrazia. Per colpa di tanti, che fino ad oggi non hanno detto quello che sanno o quello che hanno capito. Per paura? Non credo. Forse fanno ancora fatica a vivere con se stessi.

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