Riscattare il tempo della vergogna

28 Apr 2008

Voglio cominciare questo ricordo della liberazione del nostro Paese dal nazifascismo e dei sessant’anni della Costituzione con una bella storia di resistenza toscana, forse poco nota ma a mio parere così rappresentativa di quel tempo drammatico che ha fatto dire all’ex ragazzo sopravvissuto dal lager Elie Wiesel che il novecento è stato un secolo così speciale perché “ha oscillato tra le più alte speranze e il più profondo degli abissi”. Una storia simbolica di quella eroica intesa che fu alla base del riscatto morale degli italiani e ad essi dette la forza e la determinazione di rinascere come Stato sorretto e organizzato da un insieme di valori, diritti e doveri nei quali oggi siamo orgogliosi di riconoscerci, e fieri di onorare.
C’era nel paesino medievale di Sassetta, arroccato nell’entroterra livornese una villa del settecento che, venuta la guerra, per complesse vicissitudini, era stata adibita dalle comunità ebraiche toscane a orfanotrofio, a rifugio di bambini ebrei abbandonati o comunque senza genitori. La situazione era ben conosciuta e la piccola comunità, una ventima di bambini e poche insegnanti, sopravviveva protetta da affettuosa benevolenza. Fin quando…l’ordine tedesco arrivò fin lassù e i piccoli furono caricati su un treno diretto a Fossoli e poi ad Auschwirz. Accompagnati dalla direttrice e da due carabinieri il 7 aprile del ’44 salirono su un vagone merci nella stazione di Vada e il convoglio si mosse. Stretti l’uno all’altro, una piccola valigetta e il cappottino fino ai ginocchi per sfidare il freddo nord a cui erano destinati.

Il treno si mosse, e non andò lontano perché cinque caccia inglesi piombarono dal cielo, il macchinista fu ucciso, i bambini, direttrice e carabinieri finirono un un fosso da dove levarono in coro la preghiera dei padri “Sheman Israel”, tornarono a Vada furono salvi, ospitati dal parroco partigiano don Antonio Vellutini, dagli abitanti che aprirono le loro case e dai due carabinieri Pilade Barsotti e Rolando Calamai che rifiutarono di caricarli ancora su un treno. Uno solo di loro Benito Atthal, dieci anni a già molto malato, fu ripreso dalla madre e insieme, mamma e bambino, furono scoperti e fecero il viaggio senza ritorno.
Ecco. A me piace questa storia perché ci ricorda come la liberazione dal mostro nazista non fu solo il risultato della lotta eroica di tanti che sapevano di morire per la libertà, ma fu anche questo movimento di un popolo deciso a riscattare il tempo della vergogna, fu una grande comunità che si ribellava e si sacrificava per le future generazioni.
Questo episodio non lo troverete nei libri importanti di storia, ma sono contenta di ricordarlo oggi, mentre si affollano e si intrecciano i ricordi diretti e le cose sapute negli anni, i volti delle persone, le foto in bianco e nero della storia con la esse maiuscola, le voci di quei padri della Patria che da subito, la guerra non era ancora finita ovunque in Italia e nel mondo, pensavano alle regole che avrebbero scritto a fondamento dell’Italia libera e che nascevano proprio in quel contesto di lotta per la giustizia e la libertà.
Non è retorica, credetemi insistere sulla Costituzione nata dalla Resistenza o, meglio ancora perché include una storia più lunga e tanti altri protagonisti, dalla guerra.

Ricordo ancora una mattina di novembre del 2005, stavamo presentando in Cassazione la richiesta di referendum contro la sciagurata riforma della costituzione fatta da Calderoli e Berlusconi quando mi accorsi di un signore molto anziano che vagava da solo per quelle aule, quasi cercasse qualcuno o qualcosa, distratto in un suo mondo interiore. Gli domandai se avesse bisogno di aiuto, e mi rispose: “No, oggi sono qua per firmare anche io per la Costituzione ma non c’ero più tornato: in questo palazzo, 45 anni fa, fui condannato insieme a Pietro Amendola, a sedici anni di carcere dal tribunale speciale. L’aula, forse era questa. Per tutta la vita ho risentito la voce del presidente Tringali Casanova che leggeva la sentenza, per tutta la vita ho sentito il rumore delle catene, rivisto il volto dei miei compagni…e non ho potuto mai varcare il portone. E oggi, oggi non potevo non essere con voi”: ero rimasta sconvolta, sapevo, avevo letto Calamandrei e altri che ci dicevano: la Costituzione è nata dalla Resistenza. Forse non ero la sola a pensare che ci fosse anche un poco di retorica in quelle frasi belle ma lontane, nobili ma quasi di un’altra Italia, un’altra era.
Ecco invece che toccavo con mano e il vecchio antifascista era il ponte fra noi e la guerra di liberazione, fra la Costituzione e i giovani dei comitati che in tutta Italia erano nati per difenderla, patto fondante della nostra libertà, firmato nei giorni della lotta partigiana e della difesa della patria.

No, non era per amore di retorica che Piero Calamandrei, spiegando nel 1955 agli studenti milanesi il senso della nostra carta costituzionale aveva detto loro: “Dietro ogni articolo di questa costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta…se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì o giovani col pensiero perché lì è nata la nostra Costituzione”.
Non erano retorica le parole pronunciate da Aldo Moro, il 13 marzo del ’47 in un intervento alla Costituente : “Questa Costituzione oggi emerge da quella resistenza, da quella lotta, da quella negazione per le quali ci siamo trovati insieme sul fronte della resistenza e ora ci troviamo insieme per questo impegno di affermazione dei valori supremi della dignità umana e della vita sociale”. E non furono dettati dall’amor di retorica gli ammonimenti di Sandro Pertini: “Dal sacrificio di migliaia e migliaia di caduti che morirono testimoniando gli ideali di umanesimo democratico calpestati in quella lunga notte della negazione dell’uomo è nata la Costituzione della Repubblica…muro maestro della nostra convivenza nazionale”.
Ma il fatto che proprio nella lotta di liberazione affondano le radici della nostra carta costituzionale non è stato sempre così scontato, accettato da tutti i protagonisti della scena politica dell’Italia repubblicana e spesso si leva qualche rara voce che promette di riscrivere quella pagina di storia.

Tanto che Tredici anni fa fu sentita la necessità di ribadirlo in maniera solenne e definitiva con un convegno promosso dalla Fondazione Basso, dall’istituto Sturzo e dall’istituto Gramsci: tre istituti culturali eredi delle grandi tradizioni popolari dell’assemblea costituente. Si trattava infatti di contestare quel “revisionismo”storiografico che negli anni ottanta e novanta aveva inteso mettere in discussione e gettare dubbi sul carattere antifascista della Costituzione “nata dalla Resistenza”. Fu proprio in quella occasione che alcuni studiosi ribadirono l’aspetto principale della democrazia disegnata nella carta: una democrazia “non come obiettivo raggiunto una volta per tutte , quanto piuttosto come processo continuo”. Una democrazia basata sull’auto delimitazione della sovranità e aperta, con grande lungimiranza, alla democrazia internazionale. E fu proprio in quell’occasione che si riconobbe formalmente quanto sia importante per affrontare ogni operazione di riforma costituzionale, il risalire alle idee fondative, il riconoscerle correttamente e saperle interpretare. Perché ogni riforma che prescindesse da quel sentimento di nazione e di riscatto, da quell’alto anelito di libertà e indipendenza tradirebbe non solo lo spirito ma anche la lettera della nostra carta costituzionale, i delicati meccanismi messi a garanzia delle istituzioni, la forza con la quale articolo dopo articolo i padri costituenti crearono la casa dei nostri diritti, dei doveri, della autonomie.
Erano uomini e donne che in ogni angolo del Paese in modo diverso e sotto diverse insegne avevano partecipato o anche solo vissuto gli anni della guerra e della lotta e della liberazione coloro che il popolo italiano mandò a Roma a organizzare la Repubblica appena proclamata, a creare lo Stato scrivendo la nostra Costituzione.

Uomini e donne che sapevano di dover trasformare una terra ridotta in macerie nella terra promessa per i loro figli. Dovevano trasformare il dolore e la vergogna in un futuro di speranza. Eccoli, i deputati eletti all’assemblea costituente nel collegio elettorale di Firenze-Pistoia. Cinque comunisti: Celeste Negarville, Giuseppe Rossi, Teresa Mattei, Abdon Maltagliati, Renato Bitossi. Tre socialisti: Bianca Bianchi, Alessandro Pertini, Calogero di Gloria. Quattro democristiani: Attilio Piccioni, Giorgio La Pira, Giovanni Bertini, Palmiro Foresi.
Il paese che si lasciavano alle spalle in quel giugno del ‘46 nel viaggio per Roma era un paese in ginocchio: basti pensare che non era nemmeno possibile fare un bilancio approssimativo delle distruzioni, con migliaia e migliaia di case, ospedali e scuole rase al suolo e milioni di altri edifici lesionati e inagibili, inservibili il 35 % delle strade e tremila ponti. Ha scritto Giulio Andreotti ricordando De Gasperi che “i due governi Bonomi e il governo Parri che precedettero la chiamata di De Gasperi furono i grandi notai delle macerie”. La razione ordinaria di pane scese fino a 50 grammi al giorno. Eppure io ricordo ancora oggi come fosse un gioco, un gioco libero, all’aria finalmente, fra la gente che riprendeva a vivere la lunga coda nel cuore di Firenze in fila per il pane, il latte, le patate e poco altro ancora. Finalmente eravamo usciti dai sottosuoli della città: la nostra famiglia, trascinata da mio padre che doveva vegliare sulla biblioteca Vieusseux aveva passato l’emergenza nelle cantine di Palazzo Strozzi, insieme a rifugiati ebrei e ricercati antifascisti.

La notte in cui i tedeschi fecero saltare i ponti sull’Arno si spalancò anche il pesante portone e dopo poco il palazzo fu invaso dall’esercito tedesco in ritirata, morti e feriti nel cortile, noi sempre in bilico fra la vita e la morte. Il ritorno alla vita fu dunque l’infanzia ritrovata, la corsa per le strade, la voglia di ridere e gridare, di rompere il buio e il silenzio e il pianto dei mesi e degli anni della grande paura. Ballavano in piazza Signoria gli scozzesi con le loro gonnelle colorate, un miscuglio di suoni e rumori sconosciuti invadeva la città, i soldati regalavano aranci e cioccolata. Era la libertà, che i fiorentini si erano conquistati col valore della loro gente: “Firenze, questa città granducale, addormentata nell’ombra pigra dei suoi palazzi gloriosi, mostrava al mondo, prima fra le città italiane, che cosa fosse la guerra di popolo”: così la dipinse con poche forti pennellate Carlo Levi, scrittore e pittore di Giustizia e Libertà che in piazza Pitti al numero 14 scrisse in quei mesi di guerra “Cristo si è fermato a Eboli”. Scrisse ancora: “Una passione comune empiva i cuori di tutti, una speranza di libertà nata nel più profondo della disperazione, un senso spontaneo di sdegno e di naturale dignità contro la sadica barbarie, tanto più vero quanto più umile era il compito in cui poteva manifestarsi”. E ancora leggo Carlo Levi: “Firenze aveva dovuto inventare la guerra partigiana…non vi erano precedenti, il sud era stato liberato dagli eserciti alleati, Roma era libera senza lotta …la battaglia di Firenze fu la prima battaglia cittadina, essa non fu senza risultati…Firenze libera per virtù propria taceva assorta nelle sue rovine” conclude Levi questa sua splendida descrizione della città, citando un verso di Umberto Saba.
I problemi dunque che il Paese e i suoi governanti dovevano fronteggiare, nei mesi stessi in cui si stavano preparando il referendum su Repubblica e monarchia e l’elezione della Costituente erano immensi.

Li aveva riassunti De Gasperi nel suo messaggio alla nazione, nel dicembre del ’45 esponendo gli obiettivi del governo di solidarietà nazionale: inserire l’Italia nel consesso internazionale, per ridare al popolo il pieno senso di dignità e responsabilità “di cui ha bisogno per deliberare consapevolmente sulle forme del suo autogoverno”; consentire la ripresa economica e finanziaria; pacificare il Paese; ristabilire l’ordine e dare tranquillità ai cittadini; impedire il crollo della nostra moneta, arrestando il rovinoso processo di svalutazione in atto; garantire ai salari degli operai e degli impiegati pubblici e privati una base reale rispetto al valore della moneta; ristabilire la democrazia tenendo al più presto possibile le elezioni amministrative e quelle politiche per la Costituente. Sottolineava, il presidente del Consiglio che il programma nasceva sulla base di un “desiderio vivo e schietto di unità “che sta anche alla base della solidarietà ministeriale fra uomini di diverse origini che costituiscono il nostro governo”, una unità d’azione “che il destino del popolo italiano, alla vigilia del suo secondo Risorgimento reclama ed impone”.
Ho voluto ricordare questo momento politico perché è la più netta testimonianza di quanto fosse assolutamente vivo e presente negli animi dei dirigenti politici oltre che della gente il bisogno di unità. Comune anche a chi, democristiani e comunisti, cominciò da subito ad intravedere le insormontabili difficoltà che a un certo punto avrebbero reso impossibile di governare insieme: quelle diversità sugli schieramenti internazionali prima o poi avrebbero diviso dc e Pci e i loro alleati in due fronti che per decenni si sarebbero contrapposti fra ideologie incompatibili, muri programmatici e politici.

Salvando soltanto l’intesa sulla Costituzione: si dice che essa nacque da un miracolo. E anche questa definizione, come l’altra sulle origini antifasciste, non è retorica. Basti pensare a due fatti fondamentali: che proprio nel corso della discussione di articoli fondamentali della Carta, così come nei giorni della sua approvazione e promulgazione, non si sapeva ancora a quale parte politica sarebbe andata la vittoria delle prime elezioni, che si tennero il 18 aprile del ’48, con un risultato che segnò il trionfo della democrazia cristiana e la sconfitta del fronte: non ci fu dunque nella visione dei costituenti quel tentativo di farsi un sistema e delle regole a proprio vantaggio, un interesse privato nel delineare le istituzioni di tutti, come purtroppo è accaduto quasi sempre negli ultimi decenni quando si è messo mano alle riforme della Costituzione.
Il secondo aspetto del miracolo consiste proprio nel fatto che nel Paese lo scontro tra i partiti era ormai precipitato a livelli durissimi, ai limiti, si disse, della guerra civile, acuiti dalla tensione crescente fra Stati Uniti e Unione sovietica. Il miracolo avvenne all’interno di quell’assemblea che riuscì ad approvare quasi all’ unanimità il patto di nascita della nostra Repubblica. Pensate alla prima pagina dell’Unità del 23 dicembre del ’47 che aveva a otto colonne il titolo principale “La Costituzione antifascista e repubblicana approvata in una storica seduta alla Costituente”. E subito sotto, di spalla, un altro titolo a tre colonne: “Quattro lavoratori assassinati dai mitra di Scelba ad Agrigento” e un occhiello che diceva: “nuovo sangue sparso dal governo nero”.
Questa era l’Italia del miracolo costituzionale.

Il cemento antifascista, miracolosamente, durò fino alla fine ed era riuscito a conseguire importanti obiettivi: la scelta della Repubblica e la Costituzione. Non fu possibile invece creare da subito un sistema che favorisse l’ alternanza fra una maggioranza e una opposizione che negli altri paesi distinguevano partiti e programmi conservatori da quelli di progresso e che da noi era resa più difficile dalla presenza del più forte partito comunista d’Europa e dagli interessi che ci legavano strettamente agli Stati Uniti. Per molti anni ancora l’Italia si sarebbe divisa sostanzialmente fra comunisti e anticomunisti e non è detto che ancora oggi questa frattura sia stata risolta.
La resa dei conti del 18 aprile del ’48, a poco più di tre mesi dalla nascita della nostra Costituzione, vedrà socialisti democratici e repubblicani al governo con la Dc, e nelle loro liste erano uomini dell’ex Partito d’Azione e della Resistenza: tra loro La Malfa, Parri, Garosci, Saragat, Calamandrei e Ignazio Silone. La Costituzione cominciò a essere operativa in un clima ormai avvelenato di ideologie antiche, la sua attuazione ne fu forse rallentata, ma certamente passò indenne attraverso quella immediata e sconvolgente prova del fuoco e garantì la tenuta democratica del sistema, attraverso gli anni delle congiure, delle trame,della Loggia P2, delle manovre internazionali, dei terrorismi di Stato, del terrorismo rosso e nero. Così come ci ha soccorso in altre drammatiche crisi a noi più vicine, quando negli anni di Tangentopoli assicurò alla magistratura l’autonomia indispensabile a denunciare e perseguire la dilagante corruzione, e a tanti servitori dello Stato la motivazione e la forza per difenderlo quando fu sotto attacco da parte dei poteri mafiosi.

Molti si sono chiesti nel trascorrere degli anni, in cosa consista il vigore segreto della nostra carta, oltre che in quell’anima antifascista che la tutta la modella, che non ha lasciato e non lascia spazio ai tentativi mai sopiti di confondere chi ha combattuto per la democrazia e chi era dalla parte dei carnefici. Chi vi parla ha con la Costituzione una familiarità affettiva, più che di competenza. E dunque non posso non riconoscere in chi questi problemi li ha davvero studiati, dedicando ad essi l’impegno della loro vita, anche i miei punti di riferimento. Essi ci dicono che non solo la Costituzione italiana è “perfettamente in linea con il costituzionalismo contemporaneo. Anzi è stata ed è una delle fonti di questo movimento che ha assunto ormai una dimensione cosmopolitica…i grandi principi costituzionali abbracciano ormai tutto il mondo” ci spiega Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte. I beni protetti dai grandi principi costituzionali, come “la vita, la dignità delle persone e la loro libertà, l’ambiente, la sopravvivenza della specie umana sono senza confini”. Essi ci insegnano che l’impianto complessivo della Carta è solido e lungimirante, che le garanzie e i controlli sul potere, i checks and balances previsti non sono di impaccio, ma costituiscono la forza della democrazia.
Da anni ormai si discute su come rinnovare l’organizzazione della macchina del governo. Su come alleggerire i procedimenti di formazione delle leggi, su come consegnare ai presidenti del Consiglio alcuni poteri in più per rendere più spedito e più in sintonia col cittadino elettore l’iter legislativo.

Il “nuovismo costituzionale” ha assunto nella scorsa legislatura la forma di un inaccettabile tentativo di stravolgimento della Carta con la riforma Calderoli, cancellata da milioni e milioni di italiani che l’hanno solennemente bocciata il 26 giugno del 2006. Essa modificava 53 articoli della seconda parte della Costituzione, incidendo gravemente anche sulla prima, e concentrando tutto il potere di decisione in un solo organo, in un solo decisore, a cui era garantita una sostanziale inamovibilità nella carica, pur ché egli sia stato scelto dagli elettori. Ma la storia ci ha insegnato che non basta la legittimazione elettorale a rendere democratico un leader, essendo ricca purtroppo di dittatori eletti. “C’è bisogno” ha scritto ancora Zagrebelsky “non di uno stravolgimento ma di un adeguamento al bisogno crescente di decisioni efficienti. Si è detto giustamente che una democrazia che non sa decidere si condanna alla subalternità ad altri poteri di fatto che democratici non sono”. Tutto questo e anche altro (distinguendo ad esempio il ruolo delle due Camere) potrà essere fatto senza andare a stravolgere l’impianto parlamentare della Carta e si tratterà allora di quella che viene anche definita come “ordinaria manutenzione”. Evitando comunque di cadere nella pericolosa illusione ben spiegata da Valerio Onida “di ottenere attraverso nuove regole istituzionali risultati che solo processi politici e culturali pazientemente e coerentemente promossi possono produrre”.
Un insegnamento comunque possiamo e dobbiamo trarre dai giorni in cui Oscar Luigi Scalfaro accettò di mettersi alla testa dei comitati che in tutta Italia videro battersi per il No al referendum del 2006 insieme partiti democratici, sindacati, associazioni e cittadini volontari e che oggi sono ancora uniti nell’associazione “Salviamo la Costituzione”.

Abbiamo imparato che la Costituzione vive se i giovani la conoscono e sono messi nelle condizioni di amarla. Essi spesso ci hanno rimproverato di non averla fatta insegnare nelle scuole ed hanno ragione. Solo in Italia è potuto accadere, solo noi siamo stati timidi nel rivendicare quel momento luminoso di sacrifici e di intelligenza, il miracolo costituente che ci dette la carta dei diritti e dei doveri.
Torniamo allora da quell’incitamento da cui siamo partiti dalle parole di Calamandrei che diceva agli studenti di andare là dove era nata la Costituzione: i luoghi della lotta di Liberazione. E ritroveremo il ricordo anche del treno e dei bambini ebrei salvati da un intero paese, da un parroco e da due carabinieri. Troveremo là dove la strage per mano tedesca fu più spietata, sui monti di sant’Anna, che a primavera fiorisce un manto di primule : bianche oro, sembrano esili, fragili. Ma ritornano ogni anno quando l’inverno si scalda. Discrete, ma perenni. Come sono e saranno sempre le nostre memorie di cittadini di questa grande città, di questa nobile regione.
* Questo testo è stato letto nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, a Firenze, in occasione delle celebrazioni del 25 aprile.

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