I problemi dell’economia italiana

16 Feb 2008

Ambiente, energia, sviluppo sostenibile // Venerdì 15 Febbraio si è aperto il secondo weekend della Scuola di Formazione Politica “Giovanni Ferrara” di Libertà e Giustizia a Pavia. Il weekend è dedicato alle politiche pubbliche ed in particolare ai temi economici. Il pomeriggio di venerdì ha ospitato tre interventi. Antonio Majocchi, professore associato dell’Università di Pavia, ha analizzato la performance economica italiana in prospettiva comparata rispetto all’Europa e agli USA. Majocchi ha quindi analizzato le cause del fallimento della strategia di Lisbona che puntava a far diventare l’Europa l’economia knowledge-based più dinamica e competitiva al mondo entro il 2010. La differenza di performance relativa della zona Euro, e dell’Italia in particolare, può essere in parte imputata alle diverse razioni delle politiche economiche, monetarie e fiscali, differenti in USA e nell’UE, ma ha radici più profonde. Tali radici riguardano la struttura industriale italiana, la specializzazione produttiva, la spesa in R&S, le scelte di localizzazione delle imprese multinazionali e l’efficienza dei diversi livelli di governo, anche locali, nel promuovere lo sviluppo e sostenere le attività produttive.Guido Ascari, professore straordinario dell’Università di Pavia, ha successivamente affrontato tre questioni di grande attualità da un punto di vista macroeconomico.

Ascari si è inizialmente soffermato sull’analisi del “declino” dell’economia italiana, tema che occupa gli economisti e i divulgatori ormai da alcuni anni in maniera insistente. Per dirla con Luigi Spaventa: “Quella del declino/diagnosi & prescrizioni è un’industria – forse la sola – in rapida crescita” oggi in Italia. Ascari ha precisato cosa gli economisti intendano per declino (una riduzione del tasso di crescita potenziale di un’economia e non semplici rallentamenti congiunturali tipici delle fasi del ciclo economico), ha dettagliato i numeri che mostrano questo fenomeno ed ha cercato di analizzarne brevemente le cause. Legato al declino ed alla bassa produttività dell’economia italiana, è il secondo tema affrontato da Ascari: la questione salariale. Attraverso alcuni dati, il relatore ha illustrato come oggi il problema sia in parte dovuto alla bassa produttività e competitività dell’azienda Italia, ma anche, se non soprattutto, un problema di distribuzione de reddito fra salari, profitti e rendite. Infine, Ascari ha mostrato gli andamenti della finanza pubblica italiana in prospettiva storica, concentrandosi poi sugli ultimi anni. Ancora una volta la sinistra, per senso di responsabilità, si è servita di un tecnico di provenienza Bankitalia per raddrizzare una pericolosa situazione nelle nostre finanze. Forse, nella miopia di questo paese, ne pagherà il prezzo alle prossime elezioni.Mattia Barosi, operatore finanziario, ha analizzato la struttura del capitalismo italiano da un punto di vista finanziario.

Dopo una breve presentazione delle caratteristiche del mercato azionario italiano, Barosi ha sottolineato, per dirla con Guido Rossi, l’opacità delle relazioni di partecipazione azionaria incrociata fra banche e imprese, caratterizzate da patti di sindacato e da piramidi societarie. Il sistema è bancocentrico, nel senso che le banche sono fra i principali azionisti di riferimento delle grandi imprese italiane, ma è vero anche viceversa, nel senso che la proprietà delle banche è partecipata da queste stesse aziende. Questa stortura porta ad un evidente conflitto d’interesse nell’allocazione efficiente del credito. Problematiche simili di conflitto d’interesse si ritrovano nel mercato della gestione del risparmio, monopolizzato dalle banche e da società da esse controllate, ostacolando un uso efficiente di una risorsa oggi largamente disponibile in Italia: il risparmio. Infine, Barosi ha sottolineato un’altra patologia del sistema capitalistico italiano. I grandi gruppi bancari ed industriali, legati a doppio filo nella reciproca partecipazione azionaria blindata da patti di sindacato, sono anche presenti in modo massiccio nell’editoria, ossia nei consigli di amministrazione dei più grandi giornali nazionali. Nessuno di questi gruppi ha interessi strategici nell’editoria, e neanche una scelta strategica razionale di differenziazione degli investimenti può giustificare queste partecipazioni. Il motivo sembra quello di poter mantenere un’economia di relazioni e condizionare l’orientamento dell’opinione pubblica.Sabato pomeriggio ha visto invece l’intervento di Giuseppe Bertola, professore ordinario dell’Università di Torino, e Francesco Daveri, professore ordinario dell’Università di Parma.

Bertola ha sottolineato come in Italia, e nei Paesi che con l’Italia competono, costi e benefici del cambiamento sono ripartiti tra individui e imprese in modi diversi e mutevoli sul mercato del lavoro, finanziario, e dei prodotti. Nei confronti internazionali degli indicatori degli anni Novanta, l’Italia si distingue per l’alto grado di regolamentazione dei rapporti di lavoro, per la bassa generosità dei sussidi di disoccupazione, per la forte compressione e stabilità dei salari e per l’elevata disuguaglianza dei redditi complessivi. L’Italia si distingue anche per il limitato sviluppo e per l’inefficienza dei mercati finanziari, su cui le famiglie difficilmente possono contare per tutelarsi dai rischi di oscillazioni dei propri redditi da lavoro. È poco generoso e farraginoso il sistema di sussidio e collocamento dei lavoratori disoccupati, e la legislazione sui licenziamenti impone alle imprese di farsi carico di rischi di mercato e produttività che altrove incidono su sistemi di sussidio alla disoccupazione o sui redditi dei lavoratori. In altri Paesi, per far fronte a tali rischi i lavoratori possono contare su una gestione efficiente dei propri risparmi e su possibilità di indebitamento e di eventuale accesso a procedure di fallimento personale (personal bankruptcy). In Italia le famiglie lavoratrici non hanno dimestichezza e facilità d’accesso ai mercati finanziari. Una parte sostanziosa dei risparmi è stata tradizionalmente investita nell’impresa del datore di lavoro, nella forma di accantonamento del trattamento di fine rapporto a tassi favorevoli per l’impresa rispetto a quelli dell’indebitamento bancario.

I bisogni finanziari dei giovani sono stati invece storicamente soddisfatti da trasferimenti intergenerazionali piuttosto che dall’accesso ad efficienti e poco costosi mutui immobiliari.Daveri ha ripreso ed approfondito la tematica del declino, analizzando nel dettaglio le cause della bassa produttività del sistema Italia. La diminuzione relativa della produttività in Italia è contabilmente riconducibile all’industria più che ai servizi. Inoltre i dati sono in contrasto con la tesi della mancanza di concorrenza come causa del rallentamento della produttività (productivity slowdown) e anche con l’idea che “in Italia non si fa R&S quindi non si cresce”. L’ipotesi alternativa è che forse il mondo è cambiato: è più difficile competere per le nostre piccole imprese familiari e l’Italia ha urgenza di terziarizzazione (marketing, assistenza post-vendita, design).

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