“Democratico” una parola sovversiva

12 Set 2007

Ringrazio Rosy Bindi per l’onore di introdurre, unico maschio al tavolo di presidenza, questa serata organizzativa con una mia breve riflessione. La prima parte non è mia: riprende con pochissime varianti un bell’articolo del mio amico Giovanni Colombo sulla rivista Appunti di cultura e politica dello scorso luglio. Ma siccome sono meno pessimista di lui (e infatti sono qui), la seconda parte è mia.
1.
Abbiamo desiderato a lungo la nascita di un Partito democratico come esito dello scongelamento dei blocchi e condizione per il rilancio della partecipazione popolare. Lo scongelamento dei blocchi, intuito da alcuni anche prima della caduta del muro, nei (per me non formidabili) anni ottanta, ha aperto la possibilità di creare soggetti politici frutto della convergenza e della contaminazione di storie e identità diverse, luogo di dibattito aperto sulle soluzioni da dare ai problemi del Paese, alla luce dei valori condivisi di libertà, uguaglianza e fraternità, dei valori della nostra Costituzione (quella salvata dal referendum di un anno fa anche con l’apporto di Rosy); partiti leggeri, che non tendono ad essere istituzione totale e dialogano con i corpi intermedi della società rispettando la loro autonomia, senza tentare di colonizzarli, interpretando e accompagnando anche grazie ad essi un disegno di crescita democratica e solidale. Per questo non ci siamo mai scaldati più di tanto per quanto succedeva nel mondo ex-democristiano di sinistra (Partito popolare prima, Margherita poi), nel mondo ex-comunista (Pds prima, Ds poi), nella galassia ex-socialista, laica, ambientalista.

Tante vicende che pure hanno occupato uno spazio enorme sui giornali e nel dibattito pubblico le abbiamo sentite come inutili preliminari da superare al piú presto per puntare dritti al Partito democratico.
Nel frattempo «democratico» è diventata una parola sovversiva. Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito ad un’inesorabile verticalizzazione del potere. Le decisioni si sono spostate in ambiti sempre piú ristretti, all’ultimo piano dei palazzi ministeriali (mentre interi piani sottostanti restavano desolatamente vuoti) o dei municipi (mentre le riunioni dei consigli comunali erano ridotte a cineforum). Una quindicina di anni fa l’elezione diretta dei sindaci ha rappresentato una svolta importante e positiva nella vita politica e amministrativa di molte grandi città. Ma alcuni governanti ai vertici di comuni, province, regioni, appartenenti sia al centrodestra sia al centrosinistra, ubriacati dall’elezione diretta, si sono trasformati in podestà, sceriffi, governatori «faccio tutto io». La verticalizzazione è andata a braccetto con la personalizzazione. Tutti alla caccia del candidato bello e disinvolto: dall’etica si è passati all’estetica. Il «leader», una volta prescelto, richiede un pompaggio continuo attraverso i mass media: la rappresentanza lascia il posto alla rappresentazione.
La politica si è verticalizzata e personalizzata, ma soprattutto si è fatta via via dipendente dalla sfera economica. Chi realmente conta sono coloro che possiedono ingenti quantità di denaro (di cui a volte non si conosce l’origine) e hanno tra le mani potenti leve economiche.

Tutti quanti insieme compongono il grande consiglio di amministrazione che guida il Paese e le città e che decide, in ultima istanza, anche le cariche pubbliche. Gli altri, i cittadini semplici, sono confinati al rango di plebe che può, a seconda dei casi, applaudire o implorare. Noi continuiamo a credere che la democrazia sia molto meglio della signoria. E quindi da una parte abbiamo fatto opposizione –quanti no! alle pratiche di asservimento della politica agli affari, alle leggi elettorali che impediscono ai cittadini di scegliere i candidati, ai leader che galleggiano come sugheri– dall’altra abbiamo chiesto, in ogni occasione opportuna o inopportuna, l’avvento di un partito che fosse democratico nel nome e nei fatti.
Dopo dieci anni di tira e molla, i dirigenti del centrosinistra hanno finalmente deciso: il Partito Democratico si farà. Il ritornello, nei due congressi di aprile di Ds e Margherita, è stato lo stesso: non sarà un nuovo partito (cioè puro restyling) ma un partito nuovo (cioè vera rivoluzione). Ma, spenti i riflettori, si è già vista la cruda realtà. Anche per oggi non si vola. Si è arrivati all’appuntamento troppo tardi e nel momento meno indicato, dopo aver corso separati alle elezioni politiche, in una fase di governo tutta in salita. Nessuno dei dirigenti viene percepito autentico nel proporre la novità ed è in grado di scaldare l’anima degli iscritti, degli elettori storici e dei simpatizzanti. Si va avanti perciò con una fusione fredda, anzi freddissima.

La formula giusta è da mutuare dalla metodologia della finanza. I veri capi, D’Alema e Marini, hanno operato l’accelerazione sulla governance e nominato in quattro e quattr’otto l’amministratore delegato della nuova società che può battere definitivamente il padrone delle tv. La sua nomina verrà ratificata con una cerimonia il 14 ottobre prossimo venturo. I consulenti d’immagine hanno insistito con il richiamo americano alle primarie, che ha già funzionato due anni fa con Prodi, ma tutti sanno che le primarie vere sono tutt’altra cosa. Il 14 ottobre verranno pure scelti 2500 delegati che avranno il compito di arrivare a Roma, tutti quanti insieme, lo stesso giorno, dai luoghi più lontani del Paese, per fare la «ola» al nuovo vertice aziendale. Ma poiché questa smisurata assemblea rischia comunque di rappresentare la spina dorsale del nuovo partito, le regole elettorali dovranno essere tali da garantire gli equilibri preesistenti, in termini di personale politico e proporzioni numeriche fra contraenti. Dunque l’aspetto piú indigesto del “porcellum” (e anche del “Mattarellum” per quel che riguardava il quarto di proporzionale) viene assunto anche nelle leggi elettorali interne del nuovo partito: liste bloccate, senza preferenze.
2.
In queste condizioni, per illustrare le quali ho largamente saccheggiato un articolo di Giovanni Colombo su Appunti di cultura e politica dello scorso luglio, era, ed è difficile sperare. Eppure il malessere montante verso la politica in quanto tale, manifestato dallo straordinario successo del libro “La casta” di Gianantonio Stella o del recente V-day di Beppe Grillo, impone a tutte le persone responsabili di identificare ragioni di speranza.
Quali? Per me la principale consiste nel fatto che, malgrado tutto, e forse contro le intenzioni dei soci di maggioranza, dal frullatore del partito nuovo è uscita una gara vera per la segreteria, e per giunta con tre candidati forti, tutti e tre a mio avviso molto buoni, che difficilmente sarebbero emersi dagli equilibri dei rispettivi partiti.

Questa gara vera ha prodotto anche una minore prevedibilità della composizione dell’Assemblea Costituente, scombinando, almeno in parte, la possibilità di bloccare a priori i rapporti di forza, aprendola forse a facce nuove.
Per me in particolare, la candidatura di Rosy Bindi è stata decisiva per riprendere a sperare. Oltre alla stima per la sua attività politica, da parlamentare, da Ministro della Salute e ora da Ministro dela Famiglia, nella quale mi sono sentito ben rappresentato, oltre all’affetto e all’amicizia, che cosa, ai miei occhi, rende la sua candidatura preferibile alle altre?
Anzitutto il sostegno non equivoco al governo Prodi, al programma dell’Unione, all’alleanza politica che è alla sua base. Niente equivoci e provocazioni su alleanze di nuovo conio.
Io credo che la sua fedeltà al progetto dell’Ulivo senza tentazioni neocentriste, il suo rifiuto intransigente del clericalismo, la sua fede in una Costituzione Repubblicana da attuare, non demolire, il suo impegno nella trasformazione del modello sociale europeo perché si rafforzi e resti efficace, non perché sia smantellato, siano alcune fra le ragioni importanti per le quali, dopo aver sentito che Rosy Bindi si candida, mi è improvvisamente tornata la voglia di partecipare.
Anche il fatto che Rosy, anziché dirci se è favorevole o meno alla TAV, ci parli dell’urgenza di ridefinire modalità nuove ed efficaci di raccordo fra cittadini e istituzioni, che non sia limitato al momento elettorale, mi sembra un fatto importante: il superamento del drammatico e ormai pluridecennale cortocircuito fra politica e società dovrebbe essere un tema centrale per la costituente del nuovo partito democratico e per il suo futuro segretario.
Visto che è da poco passato il V-day, lasciatemi anche dire che fin dai tempi di Tangentopoli sento in Rosy la mia stessa preoccupazione per la legalità.
Nel programma dell’Unione (Per il bene dell’Italia.

Programma di Governo 2006-2011, p. 215) si leggeva, a proposito del Mezzogiorno: “E’ necessaria…una forte azione, non solo repressiva, ma anche politica e culturale, per ricostruire una diversa etica della convivenza civile, degli affari, della politica…creare condizioni diffuse e permanenti di legalità e sicurezza, infrastrutture immateriali decisive per lo sviluppo.” Questa frase sembra ancora attuale non solo per il Mezzogiorno, ma per tutto il Paese; anzi mi pare che fra le radici del malessere e della disaffezione verso la politica ci siano proprio (a) l’impressione che sull’etica della convivenza civile, degli affari, della politica, ci siano amministratori e parlamentari del nostro schieramento che non appaiono molto migliori degli avversari; (b) il timore che l’indignazione contro corporazioni e lobbies che manovrano la vita pubblica, influenzando per il proprio tornaconto provvedimenti e perfino leggi, fosse di facciata, buona solo al tempo dell’opposizione; (c) la sensazione che la necessità di far sopravvivere le proprie nomenklature appiattisca spesso la politica nella gestione del potere, nell’occupazione di ogni spazio istituzionale, mediatico, aziendale, professionale. Un vizio antico, l’arroganza del potere! non esclusivo, a quanto pare, dei democristiani e dei socialisti del secolo scorso. All’etica e alla legalità, “infrastrutture immateriali decisive” per la convivenza civile e lo sviluppo, gli elettori del nostro schieramento sono particolarmente affezionati.

E anche Rosy.
Infine, ma forse è uno degli aspetti piú importanti, se non il piú importante, credo che sia arrivato il momento di avere una donna come capo.
Concludendo. Molti strillano e dicono ormai che tutta la politica fa schifo. So che la strada è in salita, che molte premesse congiurano contro un partito veramente democratico capace di riprendere il dialogo col Paese su basi nuove, di sostenere il governo e farlo governare bene, col suo programma, rimettendo in piedi l’Italia e scongiurando il rischio, secondo me ancora non trascurabile, di nuovi incubi berlusconiani. Io confido in Rosy e nella sua capacità di piantare e far germogliare qualche seme di buona politica anche nell’Italia di domani, l’Italia dei nostri figli.

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