Questione meridionale, l’urgenza di una misura

12 Giu 2007

Il Mezzogiorno – di Francesco S. Lauro // Chiunque voglia affrontare oggi il tema dello sviluppo, si trovi al Sud dove occorre ridurre il gap con il resto del Paese, o si trovi al Nord dove l’impellenza è riprendere il cammino della crescita, purché sia persona almeno informata e non anche competente, sa che non può pensare a forme di sviluppo diverse da quelle che puntano tutte le risorse disponibili sull’innovazione. Questo perché, come è noto, i cambiamenti consolidati nell’economia mondializzata, fanno si che la concorrenza nel mercato delle produzioni a basso contenuto tecnologico si faccia sui costi di produzione, e segnatamente sul costo del lavoro; e oggi persino in Europa vi sono vaste aree dove le maestranze costano meno che in Italia. Ma mentre il Nord, che con l’innovazione riprende il cammino per sé e per l’Italia intera come ha cominciato a fare, può disporre delle risorse finanziarie e tecnologiche indispensabili; il Sud con l’innovazione deve inventarsi di sana pianta un tessuto economico e produttivo, deve cioè inventarsi, anche e prima, gli elementi con i quali fare innovazione. Insomma a Sud si parte ancora, come sempre, da zero, con l’unica risorsa, importante, costituita da una percentuale di laureati fra i disoccupati più alta d’Italia. Sorge un domanda: se nel mezzogiorno non esiste una classe imprenditoriale di dimensioni significative, a chi spetta la responsabilità dell’impegno per lo sviluppo? Al Sud, è questo il punto dolente, esiste una sola classe dirigente: quella politica, tutte le altre, sindacato e giornalismo compresi, le ruotano attorno in luogo di contrastarla, sempre con la speranza di potere entrare a farne parte.

Quest’ultimo dato è costume italiano non solo meridionale ma al Sud fa il paio con il numeri del Pil. Per esempio: l’85% del Pil in Calabria è prodotto, ma sarebbe più corretto dire: è distribuito, dalla Regione; e in tutto il Meridione si viaggia su queste cifre. Ora per comprendere quanto sia arduo avviare lo sviluppo solo con l’apporto decisivo della politica è utile fare riferimento ad un episodio recente, non molto noto, che la dice lunga sulla adeguatezza dei politici meridionali rispetto alla drammaticità e all’urgenza dei problemi irrisolti. Oltre tutti i fenomeni, noti, di disamministrazione e di spreco delle poche risorse disponibili, il mezzogiorno è anche il posto dove un commissario straordinario, mandato dal governo con un decreto legge per risolvere il problema dello smaltimento dei rifiuti, ha confessato in pubblico che per il successo della sua missione conta solo sul Presidente della Repubblica e sul Presidente del Consiglio. Come dire che tra i politici di quell’area, la Campania, dal livello circoscrizionale al livello parlamentare, nessuno è disposto a spendersi per risolvere il problema. Oppure, peggio, nessuno può. Allora non si inventa nulla di nuovo quando si dice che in questo quadro è del tutto illusorio credere che i finanziamenti pubblici possano da soli mettere in moto una società come quella meridionale. In buona sostanza, dove si possono trovare la forza morale e politica, la lucidità intellettuale e pratica, la capacità tecnologica e finanziaria, e la determinazione delle decisioni efficaci, per organizzare e indirizzare senza esitazioni un’area così vasta verso l’economia dell’innovazione e della conoscenza? È proprio in considerazione del quadro sin qui descritto che occorre chiedersi se a riguardo delle politiche di coesione non sia venuto il momento di andare oltre gli strumenti di natura economico finanziaria, visto che le risorse immense impiegate fino ad oggi, sempre gestite dalla politica, pur avendo contribuito a fare uscire il Mezzogiorno dal terzo mondo, tuttavia non hanno spostato che di qualche decimale il gap Nord Sud.

In parole povere occorre chiedersi se non sia giunto il momento di inventare qualcosa di idoneo ad incidere in modo efficace e durevole nelle società meridionali. Qualcosa che agisca là dove c’è il blocco: sulla classe dirigente politica.Occorre però approfondire il concetto di misura non finanziaria. La differenza tra una misura non finanziaria ed i finanziamenti di ogni tipo investe il momento del concepimento dell’impresa, quello in cui si decide se l’impresa rischierà le malformazioni genetiche o ha speranza di nascere sana. Malformazioni genetiche che, si badi bene, hanno la loro origine quasi sempre nella mancanza di una cultura d’impresa. E ovvio infatti che dare soldi a chi non ha mai fatto impresa è un vero terno al lotto. Aiutare invece chi vuole intraprendere davvero, chi sa investire i propri soldi se li ha, o e disposto comunque a rischiare in proprio se stesso, e soprattutto è determinato a raggiungere il risultato, riduce notevolmente i rischi del fallimento dell’iniziativa. Questo proprio perché è nella logica di una misura non finanziaria privilegiare il ruolo e l’impegno personale rispetto all’apporto finanziario che da solo non può mandare avanti il progetto. Può pensarsi a qualcosa di simile per le classi dirigenti? Oggi al Sud non v’è amministratore che non riceva richieste di lavoro. E le risposte, pur insufficienti, arrivano. Ma da sindaci sprovveduti, quanto a competenza e, purtroppo, pure quanto a informazione, e spericolati, quanto a decisioni, capaci di inventarsi ancora assunzioni pubbliche di massa, incentivi fuori da ogni logica di mercato, progetti di aziende che non sorgeranno mai.

In tutto questo c’è pure un rovescio della medaglia, poco considerato: chi accetta la soluzione “politica” al problema dell’esistenza, il lavoro, è forse qualcuno che nella società, o lì dove svolge le sue mansioni, assumerà una posizione attiva: di spinta, di stimolo, di movimento? Quale spinta è arrivata allo sviluppo del Sud dai giovani assunti in massa con la 285? Quale contrasto hanno saputo opporre all’infiltrazione della ‘ndrangheta e della corruzione nei comuni in cui sono stati assunti? Eppure tra questi molti avevano fatto il ‘68 e il ’77. E c’è ancora un altro aspetto da considerare, a vantaggio della tesi che occorre agire sulla classe politica. È l’aspetto legislativo, e sotto due profili: uno interno, uno internazionale. L’Italia, a seguito dei trattati sottoscritti in esecuzione dell’art. 11 della Costituzione, ha accettato che l’attività legislativa e regolamentare di Parlamento e Governo, in materia di politica economica, fiscale e finanziaria venga sottoposta a vincoli internazionali. Ora l’ampliamento delle competenze di Regioni ed Enti Locali ha diffuso la consapevolezza e la pratica che la finanza locale vada coinvolta nell’impegno al rispetto di tali vincoli. Quanto all’aspetto interno esiste oggi il Testo Unico degli Enti Locali che nei suoi vari articoli dichiara e detta per le istituzioni di Regioni Province e Comuni impegni chiari in materia di sviluppo economico. Cito testualmente: “Il comune è l’ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo … La provincia, ente locale intermedio tra comune e regione, rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi, ne promuove e ne coordina lo sviluppo … La legge regionale indica i principi della cooperazione dei comuni e delle province tra loro e con la regione, al fine di realizzare un efficiente sistema delle autonomie locali al servizio dello sviluppo economico, sociale e civile … La regione indica gli obiettivi generali della programmazione economico sociale e territoriale … Spettano al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell’assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico … La provincia, in collaborazione con i comuni e sulla base di programmi da essa proposti promuove e coordina attività, nonché realizza opere di rilevante interesse provinciale sia nel settore economico, produttivo, commerciale e turistico, sia in quello sociale, culturale e sportivo” La Legge quindi è chiarissima: lavorare per lo sviluppo è un preciso dovere istituzionale.C’è tuttavia una costante nel pensiero delle classi dirigenti meridionali, qualcosa che li fa ragionare in questo modo: il Sud, sostengono, è culturalmente diverso e lo sviluppo può arrivare solo: o da iniziative pubbliche o da imprenditori di altre aree.

Ebbene, è ora di dire che la differenza culturale o è presunta o è propria delle classi dirigenti. Esistono infatti nella realtà economica del profondo Sud fenomeni imprenditoriali che, nati e sviluppatisi al di fuori del due sistemi consolidati: quello economico-politico-assistenziale e quello criminale, ben rappresentano la prova provata che anche nelle nostre regioni meridionali è possibile accendere lo sviluppo purché si percorrano le strade obbligate dello sviluppo vero. In Calabria è nato oramai da dieci anni il fenomeno che con un titolo da romanzo si può chiamare “I lamponi d’inverno”. Trattasi di una coltura innovativa, che grazie ad un particolare microclima che esiste dalla parti di Plati, paese di famigerata fama, ha consentito ad una cooperativa sociale di Trento di mantenere le sue quote di mercato nella vecchia Europa, riuscendo a portare i frutti di bosco dell’Aspromonte sulle tavole di Berlino Budapest Praga e Vienna in tempo per il pranzo di Natale. A coltivare le piantine qualche decina di giovani aspromontani, compresi alcuni appartenenti a famiglie della ‘ndrangheta, cosa che non ha evitato tentativi di estorsione. Il fenomeno è nato da una iniziativa della chiesa locale che ha favorito l’incontro fra i disoccupati dell’Aspromonte e una delle più importanti cooperative trentine, la Sant’Orsola di Pergine Valsugana. Qui il fenomeno ci interessa per diverse ragioni. La prima: l’asse portante dell’iniziativa è stato ed è la collaborazione commerciale-industriale tra un’azienda del Nord consolidata ed una del Sud neonata.

La seconda: l’iniziativa è stata del vescovo di Locri, la politica non ha mosso un dito. La terza: non vi è stato alcun finanziamento pubblico, né bancario; l’avvio è costato meno di cento milioni di lire, e i soldi li hanno messi i trentini, inviando gli indispensabili impianti confidando nella garanzia solo morale del Vescovo! La quarta: da quella iniziativa hanno preso l’avvio diverse imprese cooperative che competono sul mercato nazionale dell’artigianato e che danno lavoro a circa 900 persone (compresi gli stagionali). La quinta: il movimento cooperativo nato dopo che l’esperienza ha mostrato la sua solidità è tutt’oggi in pieno sviluppo. E fortunatamente “i lamponi d’inverno” sono un caso eccezionale ma non l’unico. Fra i tanti è d’obbligo, per le sue consolidate dimensioni internazionali, ricordare Etna Valley che oggi attraversa il suo momento congiunturale di difficoltà ma che ha dato dà lavoro a circa 4 mila persone, ha generato indotto e attratto investimenti esteri da aziende di livello mondiale nella microelettronica e nelle biotecnologie. Ma l’aspetto più interessante è un altro: a Catania si è creata una integrazione in due direzioni che sono decisive per ogni processo di sviluppo in qualsiasi area: da un lato, tra l’Industria e l’Università che, scegliendo come riferimento il mercato e le esigenze dei suoi nuovi protagonisti, ha rinnovato programmi e ricerche; e dall’altro tra industria ed Enti Locali, che hanno imparato ad operare attivamente per favorire i nuovi investimenti, creare occupazione e sviluppo: e così è nata “InvestiaCatania”, insignita quale “Best Pratice” dall’UE, una iniziativa pilota che ha precorso i tempi dello Sportello Unico per le Attività produttive.

“Etna Valley” condivide con i “lamponi d’inverno” tre rilevantissimi aspetti. Il primo: anche a Catania la miccia è stata accesa da una persona esterna al sistema locale. Si tratta di quel Pasquale Pistorio, siciliano di nascita, oggi Presidente Telecom, che da direttore marketing mondiale della Motorala, trasferitosi da Phoenix alla guida del Gruppo SGS di Finmeccanica, crea a Catania con la francese Thomson la SGS-Thomson Microelectronic, azienda che sotto la sua presidenza scala la classifica mondiale delle principali società di semiconduttori. Quando al secondo aspetto: anche a Catania in tutto l’ambiente intorno, ivi comprese politica e pubblica amministrazione, qualcosa si è messo in moto, e al di fuori di ogni metodologia corruttiva o criminale, che nel contesto resta purtroppo ancora dominante. Il terzo aspetto è una vera e propria chiave di volta: entrambi le due realtà, Catania e l’Aspromonte, hanno nel loro DNA l’innovazione.Un altro mito da sfatare è quello della presunta mancanza di risorse. Qualche mese fa ho scritto un quotidiano locale, “Calabria Ora”, alcune considerazioni sulla provincia di Reggio Calabria. “Questa provincia – ossrvavo – dispone: di un Parco Nazionale di bellezza selvaggia che custodisce fenomeni assolutamente unici in Italia, di una struttura portuale di interesse mondiale: Gioia Tauro, di borghi non certo all’altezza di quelli siciliani o salentini, soprattutto perché non curati, ma di sicuro fascino, di spiagge ancora incantevoli, di un mare incredibile e di una montagna, la più verde d’Italia, a venti minuti dal mare! Offre pure una tradizione culinaria che piace e che talvolta suscita qualche entusiasmo.

E non parliamo del clima! Questa provincia – aggiungevo – ospita pure siti di elevato interesse archeologico, musei di fama mondiale, tracce di greco antico parlato! E, quanto ai trasporti, Reggio è al centro di un asse lungo appena duecento chilometri sul quale operano ben tre aeroporti, uno dei quali in città. E gli altri due, uno a cento chilometri a sud del capoluogo, a Catania, ed un altro a cento verso nord, a Lamezia Terme, collegati entrambi con Europa e USA. Ebbene: questo paradiso è ancora una delle ultime province d’Italia! Perché?”, mi chiedevo amaramente. Non certo per l’ignavia dei suoi cittadini, visto quello che si è messo in moto sull’Aspromonte. Né per la mancanza di centri del sapere, visto che vi operano ben due università. Né per l’assenza di una coscienza antimafia, visto quello che hanno saputo fare i ragazzi di Locri e, prima ancora quelli di Taurianova, e l’attiva presenza di Libera sull’intero territorio con le sue cooperative di gestione dei beni confiscati. E, per finire, non mancano nemmeno le risorse umane, quelle tanto per intenderci in grado di guidare le aziende nella competizione internazionale. Al Sud, e notorio, c’è sempre stata gente che inserita in ambiente aziendale ha saputo conseguire risultati di eccellenza. E le facoltà scientifiche delle migliori università italiane sono frequentate da studenti meridionali in misura notevole. E studenti meridionali non mancano nelle università europee ed americane. Ma è pure ora che si dica a chiare lettere che il Sud è autore del proprio male, perchè la democrazia è il luogo dell’impegno, non solo una tribuna da cui gridare liberamente le proprie pretese anche se legittime.

E subito va aggiunto che il Sud non è diverso dal Nord nei suoi difetti: è solo meno ricco e meno produttivo, proprio perché non dispone di un tessuto economico diffuso e capace di bilanciare il potere della politica che, per questa ragione, di fatto è pervasiva onnipresente e non lascia vie d’uscita. È come assistere inermi ogni giorno ad un vero e proprio aborto procurato, e nemmeno eugenetico: le forze vive di quelle società vengono infatti letteralmente uccise o esiliate prima che diventino capaci di agire, o emarginate in modo scientifico. È quindi la drammaticità delle conseguenze della politica cattiva, perché inadeguata, a perpetuare l’immaginare di un Sud diverso dal Nord.
Un obbligo repubblicano.Se esistesse una identità culturale repubblicana italiana nessuno potrebbe negare che il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, costituisca uno degli architrave di tutto il sistema democratico italiano. Il secondo comma dell’art. 3, indica qualcosa che fa del sistema democratico repubblicano non uno strumento per solo garantire la democraticità delle decisioni, al fine di realizzare la miglior forma di autogoverno possibile, ma qualcosa di più. Precisa infatti che uno degli scopi del governo democratico è quello di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica del Paese.

Ora non v’è dubbio che la sensibilità generale, anche degli addetti ai lavori, è portata, per ragioni non solo culturali in senso ampio e giuridiche in senso stretto, quanto per ragioni storiche, proprio per l’uso che ne ha fatto la politica italiana dal dopoguerra ad oggi, a dare alla parola “rimuovere” il significato di un impegno: costituzionale per le istituzioni, nella direzione dell’abrogazione delle norme giuridiche che violano il principio di uguaglianza, e sociale per le forze politiche, nella direzione della creazione dello stato sociale. Oggi però l’agire politico trova quel rimuovere di sempre più angusta e difficile realizzazione, per le ragioni assai note: la scarsità delle risorse disponibili impedisce di utilizzare la leva della finanza pubblica per perseguire gli obiettivi di cui al secondo comma dell’art. 3. Oggi gli obiettivi del rimuovere sono perseguibili solo in quanto prima si sia saputo promuovere, promuovere le condizioni dello sviluppo e della crescita. E questo e nel senso che senza crescita non c’è ricchezza da distribuire e forse, ma soprattutto suggerirei al riparo della mia incompetenza, anche in un significato più aderente alla realtà che è cambiato, e cioè: a precise condizioni, in determinati ambiti territoriali, e per alcun fasce di popolazione, fare sviluppo equivale a creare eguaglianza, perché in aree note del Paese il solo sviluppo, prescindendo dall’uso che si farebbe poi della nuova ricchezza prodotta, il solo sviluppo rimuove di per sé ragioni storiche e geografiche di disuguaglianza.

Ora, prima di procedere oltre, vale la pena di aprire una parentesi per ricordare che è stata la stessa Corte Costituzionale a riconoscere e dichiarare che nella gerarchia delle fonti i principi costituzionali vengono prima anche delle altre norme di rango costituzionale. A stabilire cioè che esistono norme costituzionali più importanti delle altre e quindi prevalenti su altre. Chiusa la parentesi occorre ora ricordare che il secondo comma dell’art. 3, creato per garantire che il principio di cui al primo comma non abbia rilevanza solo formale, indica alle competenti Istituzioni della Repubblica un impegno che pur definito compito è qualcosa di più. O lo potrebbe diventare, o sarebbe auspicabile che lo diventasse, almeno nella misura compatibile con un sistema costituzionale di garanzie democratiche. Se si trovasse cioè la via per trasformare, entro certi limiti e limitatamente ad alcuni ambiti istituzionali e con tutte le garanzie costituzionali, se si trovasse la via per trasformare il compito di rimuovere, rimuovere nella accezione più ampia che comprenda l’impegno per lo sviluppo, in qualcosa la cui violazione, rilevata e rilevante in base a criteri oggettivi di valutazione, avesse conseguenze giuridiche per i chiamati ad adempiere che non hanno adempiuto, forse avremmo trovato la misura non finanziaria di cui abbiamo bisogno. Allo scopo può essere utile tornare a Testo Unico degli Enti Locali e precisamente gli artt. 141, 142 e 143. Si apprende da quegli articoli che i Consigli comunali e provinciali possono essere sciolti in tre casi: a) quando compiano atti contrari alla Costituzione o per gravi e persistenti violazioni di legge, nonché per gravi motivi di ordine pubblico; b) quando non possa essere assicurato il normale funzionamento degli organi e dei servizi per le cause tassativamente elencate; c) quando “a seguito di accertamenti effettuati a norma dell’articolo 59, comma 7, emergono elementi su collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata o su forme di condizionamento degli amministratori stessi, che compromettono la libera determinazione degli organi elettivi e il buon andamento delle amministrazioni comunali e provinciali, nonché il regolare funzionamento dei servizi alle stesse affidati ovvero che risultano tali da arrecare grave e perdurante pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica”.

Dei tre casi previsti il più utile alla individuazione del percorso verso la misura non finzairia che stiamo cercando è il terzo. Perché indica come rilevanti per lo scioglimento casi pratici concreti, e in riferimento alle cause: quelle di cui all’art. 59, 7; e in riferimento agli effetti: le “forme di condizionamento degli amministratori stessi, che compromettono la libera determinazione degli organi elettivi e il buon andamento delle amministrazioni comunali e provinciali, nonché il regolare funzionamento dei servizi”. A ben vedere però se non fosse richiamato l’art. 59,7 (facente riferimento agli amministratori indagati e condannati per mafia) probabilmente gli effetti, così come indicati, da soli sarebbero di accertamento difficile. Stando alla lettera, appare evidente che non è infatti facile provare l’esistenza di “forme di condizionamento … che compromettono la libera determinazione degli organi elettivi”. Quanto al regolare funzionamento dei servizi, vi sono oggi comuni che non funzionano regolarmente anche senza l’inquinamento mafioso. Queste osservazioni vanno fatte per individuare lo strumento giuridico idoneo ad ottenere lo dei consigli comunali per mancato assolvimento della funzione istituzionale della promozione dello sviluppo nel territorio. È opinione della coscienza comune che sull’assolvimento di tale funzione le elezioni siano la garanzia democratica in assoluto migliore e potenzialmente di maggiore efficacia. Ma vanno fatte alcune considerazioni.

Intanto quella fondamentale: di fatto non è così, non è mai stato così e nulla lascia immaginare che sarà così in un prossimo futuro.Quindi vanno aggiunte due considerazioni che qui non hanno bisogno di dimostrazione: il mancato assolvimento della funzione di promozione dello sviluppo, da un lato, è legato a doppio filo al fenomeno mafioso e agli intrecci che fanno vivere e prosperare la malapolitica, e dall’altro mantiene le popolazioni del Sud in una condizione di perenne debolezza rispetto al potere delle mafie. Si tratta però di situazioni negative la cui influenza diretta, sulla libera determinazione delle assemblee elettive e sul buon andamento delle amministrazioni é di difficile accertamento. Tuttavia è chiaro che se la funzione istituzionale degli enti locali di promozione dello sviluppo venisse riconosciuta di rango costituzionale, il suo mancato assolvimento darebbe vita ad una vera e propria omissione, con anche riflessi sull’ordine pubblico, e configurerebbe una violazione della Costituzione; e saremmo nell’ambito dell’art. 141 del Testo Unico. La strada quindi esiste, è tracciata, ma nessuno la attrezza perché si possa percorrerla con la necessaria e urgente determinazione. In questa direzione vale la pena di ricordare piano che già oggi si assiste a quel particolare fenomeno che vede un ente sopranazionale, non eletto con il sistema democratico costituzionale, che per l’effetto dell’art. 11 della costituzione e di quella magica frase “a condizioni di parità con gli altri stati”, paralizza le deliberazioni degli organi costituzionali italiani, Governo e Parlamento, in materia economico finanziaria e non solo.

È quindi consentito per lo meno stupirsi del fatto che l’Italia non disponga di uno strumento della medesima efficacia nei rapporti tra potere centrale ed enti locali! E lo stupore si fa orrore davanti al paradosso che ciò che non è permesso al Capo del Governo italiano è consentito al sindaco di una città! I principi costituzionali e le norme del Testo Unico degli enti locali che su quei principi sono fondate non ci impediscono quindi di ritenere che la misura dello scioglimento dei Consigli comunali e Provinciali che non assolvono alla funzione di promuovere lo sviluppo economico dei territori amministrati abbia un fondamento di legittimità costituzionale. E i vincoli europei del governo italiano nemmeno ci impediscono di immaginare una qualche forma di sanzione anche per le istituzioni Regionali che si macchino di una così rilevante omissione. Resta da costruire lo strumento pratico. E qui vanno fatte alcune osservazioni. Intanto non c’è solo l’omissione, dalla non utilizzazione dei fondi strutturali europei al non utilizzo dei beni ambientali e culturali per lo sviluppo sostenibile, c’è pure come nel caso degli articolisti siciliani e dei trecento assunti nelle aziende di Reggio Calabria per delibera del Consiglio comunale di Reggio Calabria e pagati dal Comune, una vera e propria azione di dilapidazione delle risorse, quelle azioni che Bruxelles vieterebbe a qualsiasi governo nazionale. Una buona legge in materia deve quindi sapere individuare i casi pratici che si intende risolvere, con una specificazione oggettiva il più vicino possibile al dettaglio sempre badando di non incorrere nel rischio dell’applicazione impossibile della norma: lo scarso utilizzo dei fondi strutturali e le operazioni obiettivamente fuori mercato sono emergenze precise, sufficientemente circostanziabili, per essere oggettivamente rilevabili.

Passando alle sanzioni bisogna stare ben attenti agli obiettivi e al rischio di distorsioni. Occorre da, un lato, non far pagare la sanzione anche agli amministratori non omissivi: oggi quando si sciolgono i Consigli comunali per mafia decadono anche in consiglieri non mafiosi; dall’altro, occorre garantire che i consiglieri decaduti non possano ricandidarsi almeno per la tornata elettorale successiva allo scioglimento. Ma bisogna pure prevedere ed evitare le strumentalizzazioni politiche di una parte contro l’altra. Quanto agli obiettivi. Permettiamoci intanto di sognare con gli obiettivi indiretti, che mai verrebbero scritti nella legge: una legge così se accompagnata dalla ineleggibilità dei decaduti può creare scompiglio e aprire finalmente le porte della politica a quelle persone che non hanno alcuna voglia di perdere il loro tempo nelle liturgie, perché sono molto più attenti e disponibili a fare, che a giocare alla politica. Un altro beneficio indiretto potrebbe derivare dai cambiamenti generalizzati e diffusi che una simile legge provocherebbe, la inamovibilità delle classi dirigenti riceverebbe un colpo che potrebbe essere mortale. E, presto, l’applicazione dello strumento legislativo, se efficace, costringerebbe la politica ad aprirsi alla società e a fare i coni con la cultura d’impresa. Quanto agli obiettivi specifici da fissare in legge qui si può solo raccomandare un principio importantissimo: deve essere chiaro fino al dettaglio l’ambito di operatività, le azioni che si intendono sanzionare e le inadempienze che si vuole andare a colpire.

Per dare concretezza a tutto questo occorre uno sforzo di creatività che non è mai mancata ai giuristi italiani. E una fantasia che nemmeno manca alla politica italiana. Quello che manca è la volontà, ma noi siamo nati per sollecitare la politica e per suscitare un movimento capace di sollecitazioni efficaci. Magari inventando noi lo strumento necessario alla bisogna.
* Questo testo è una delle relazioni conclusive affidate agli allievi della Scuola di formazione politica di LeG a Pavia.
Il Mezzogiorno, obiettivo non negoziabile della sinistra – di Francesco Lauro

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