Il Mezzogiorno, obiettivo non negoziabile della sinistra

11 Giu 2007

L’insuccesso registrato dal centrosinistra, alle recenti elezioni amministrative, nel centro nord d’Italia lascia presagire un’attenuazione della già non sufficiente attenzione ai temi dello sviluppo del Mezzogiorno all’interno della attuale maggioranza. E ciò emerge anche da dichiarazioni di esponenti politici dell’ Unione – preoccupati dalla perdita di consensi a nord – volte ad avallare l’esistenza di una pretesa “questione settentrionale”. Come se le inadeguatezze delle politiche per Mezzogiorno ed il malcontento del Nord non siano facce di una stessa medaglia e trovino entrambe origine nella crisi che sta vivendo l’Italia: un paese che sembra abbia perso la fiducia nella propria capacità di avanzare con forza sulla strada dello sviluppo e delle riforme, affrontando le sue grandi disuguaglianze interne, a cominciare dal ritardo Mezzogiorno, ed al tempo stesso sempre più incerto di poter assumere un ruolo positivo e dinamico nell’affrontare le sfide di un mondo sempre più complesso e competitivo.
E’ infatti singolare come negli ultimi anni si sia manifestato in vari settori della società italiana un progressivo e parallelo calo di tensione rispetto a due temi storicamente presenti tra i maggiori obiettivi ideali e politici dell’ Italia repubblicana e cioè: la costruzione dell’Europa ed il riscatto del Mezzogiorno. Il comune denominatore di questa disaffezione trova le sue radici in una prospettiva politica alquanto disincantata che pone il cittadino nel ruolo di mero portatore dei propri ristretti interessi e lo vuole sempre meno impegnato nella tutela degli interessi generali e di quelli dei più deboli.

Mi balza spontaneo alla mente il ricordo della breve lettera di saluto inviataci da Sandra Bonsanti, all’ inizio del terzo modulo del nostro corso, che si concludeva, nel ricordo del suo Giovanni, con l’accorato auspicio per un paese più giusto e meno gretto. E proprio Giovanni Ferrara, durante le pause del secondo modulo, mi aveva confidato il suo rincrescimento per l’evidente calo di tensione sulla centralità della questione meridionale: fenomeno purtroppo figlio dello spirito di questi nostri tempi.
Tempi caratterizzati da quella che definirò, mutuando il titolo dell’ultimo libro di Barbara Spinelli, sindrome da “sonno della memoria”. Una “patologia” della coscienza che porta tra le sue conseguenze il dissolvimento di valori che sembravano ormai storicamente acquisiti alla identità della nostra comunità nazionale, come l’antifascismo, la laicità dello stato, l’europeismo, il meridionalismo. E che arriva sino al punto di generare costruzioni “mostruose”, quale mi appare il concetto stesso di “Padania” (che anche “Word” mi segnala come errore) una “Padania intesa in guisa di entità separata rispetto al resto d’Italia e quindi vero e proprio falso storico e culturale.
Ma il sonno della memoria non si limita a sottrarci la consapevolezza di quello che siamo sulla scorta del nostro passato: ci priva, simmetricamente, della capacità di elaborare una visione ampia e ambiziosa del nostro futuro. Lo sguardo si focalizza sulle contingenze, sugli interessi particolari di ciascuno, e non va al di là.

E così il rincaro dei prezzi, che ha seguito l’introduzione dell’Euro e si è abbattuto duramente soprattutto sui redditi più bassi, sull’ onda delle strumentalizzazioni dei cosiddetti euro-scettici, pur nel paese di Ernesto Rossi ed Altiero Spinelli, ha dato vita una moderna caccia alle streghe che ha avuto come bersaglio l’Europa. Alla sfida postaci dall’ apertura di nuovi immensi mercati di produzione, ma anche di consumo, c’è chi, coltivando il senso di smarrimento degli italiani, immemori posteri di Marco Polo, propone l’introduzione di nuove misure protezionistiche, ignorando le opportunità che questi nuovi scenari aprono. Alla necessità di individuare i modi, e a reperire le risorse necessarie a far sì che, a quasi sessanta anni dall’inizio dell’intervento straordinario, le cause che ancora impediscono il decollo del Mezzogiorno vengano eliminate, a nord come a sud si contrappongono, accanto alle vecchie incapacità, nuove miopie ed egoismi. E ciò come se la lezione degli Spaventa, Fortunato, Croce, Nitti, Salvemini, Ugo La Malfa, Saraceno e Compagna – solo per citare i nomi che mi vengono per primi alla mente – non fosse mai esistita.
Giovanni Ferrara, come ci testimonia il suo bellissimo e struggente libro postumo dedicato al “fratello comunista” era stato direttamente – o indirettamente nel solco della memoria affettuosa per il padre, Mario – allievo, amico, o compagno di lotta di molti questi uomini ed intimo depositario di questi alti ideali.

Ed, al tempo stesso, essendo rimasto singolarmente immune da quel progressivo inaridimento interiore che – come lui stesso scrive – di norma si fa strada negli uomini, quando invecchiano, era stato sino all’ ultimo capace di amare, commuoversi, soffrire, indignarsi, lottare, sperare: ricordare il passato e guardare lontano in avanti.
E’ questo il mio ricordo di Giovanni Ferrara. Un uomo che, come ci ha spiegato Salvatore Veca nella sua affascinante conversazione al caminetto, non poteva concepire la libertà scissa dall’ eguaglianza, il giusto riconoscimento dato al merito svincolato dal dovere di chi sta avanti di tendere la mano a chi sta più indietro. E questo è stato il credo laico di un liberale, che Veca definirebbe un democratico egualitario ed io non ho esitazione a chiamare “di sinistra”, oggi che questa parola sembra a volte essere considerata quasi inopportuna, se non addirittura “politicamente scorretta,” da molti di coloro che sino a pochi anni fa ritenevano di possederne il monopolio.
E tutto quello che ho ascoltato da Giovanni in pubblico e in privato, in quelle purtroppo troppo brevi ore trascorse insieme a Pavia, è unito da un comune filo rosso. Dalla traduzione di quel “dannatissimo” passo del resoconto di Tucidide sul discorso di Pericle, che ci fa capire come la democrazia non possa essere che “di sinistra”, al metterci in guardia dall’ idealizzare la competizione, in quel suo intervento così inusitatamente precoce, quasi ne avesse presentito la necessità dell’urgenza.

Per me quel filo rosso ha un significato chiaro: la sinistra democratica non può e non deve perdere di vista le ragioni stesse del suo essere, non può dimenticare quali sono i suoi compiti, non può rinunciare in nome dell’ opportunismo e del potere a combattere apertamente per i suoi obiettivi non rinunciabili.
* Questo testo è una delle relazioni conclusive affidate agli allievi della Scuola di formazione politica di LeG a Pavia.

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