Ripensare i confiniLa geografia dei livelli di governo

17 Mar 2007

Gustavo Zagrebelsky Presidente Onorario Libertà e Giustizia

Il tema dei livelli di governo è il tema dei confini dell’azione pubblica, un argomento che fino a qualche decennio fa non costituiva un problema particolare per i costituzionalisti, perché i confini definivano il territorio e il territorio veniva considerato uno degli elementi fondamentali dello Stato. Lo Stato come potestà pubblica: un popolo, un territorio, un’autorità. Il territorio era un pre-dato, indiscutibile. Se lo Stato doveva gestire problemi ultraterritoriali, si avvaleva degli strumenti del diritto internazionale. Questo modo di procedere, superava i confini, ma ribadiva l’idea che entro i confini del territorio lo Stato era l’autorità ultima.
L’idea che lo Stato gestisse i suoi problemi, presupponeva che la dimensione dei problemi fosse coincidente con l’ampiezza dei confini dello Stato.Oggi il presupposto è caduto in molti settori, sia verso l’alto che verso il basso.Questi sono i due capitoli della mia riflessione. E a questi si aggiunge una terza prospettiva: oggi forse è messa in discussione l’idea stessa di confine. Quando noi parliamo di società multietnica, per esempio, l’idea di territorio legata a una popolazione avente determinate caratteristiche, una lingua, una sua storia eccetera viene meno.
I confini verso l’alto: classicamente si partiva dall’idea che la dimensione del potere coincideva con dimensione del problema da affrontare. Cioè che si potessero gestire i problemi della sicurezza pubblica in una dimensione nazionale, così come i problemi dell’ecologia o dei diritti umani.

Ma il discorso si sdoppia, per così dire. Ci sono problemi di ordine materiale, come l’economia, l’ecologia, la sicurezza eccetera e ci sono i problemi morali. Quelli materiali hanno assunto una dimensione che va ben al di là dei confini dello Stato, degli stati nazionali. Si pensi all’economia globalizzata, alla circolazione dei capitali senza limiti, decisa in luoghi opachi, che possono avere conseguenze catastrofiche oppure benefiche per molti paesi del pianeta. Idem per le politiche di sicurezza pubblica, pensate alla lotta al terrorismo, per non parlare dei problemi dell’ecologia. Un incidente nucleare in una centrale qualunque può avere conseguenze catastrofiche per l’intero pianeta. Il disboscamento della foresta dell’Amazzonia ha conseguenze dirette in Europa. Questo è il primo punto di superamento dei problemi. Perché in fondo questo è un rovesciamento di prospettiva che è connesso alla democratizzazione. Uno stato autoritario può nascondere i problemi e la loro dimensione attraverso il potere. Non me ne importa niente di quello che succede fuori. In una situazione più aperta, tutti si sentono a contatto con i problemi in una situazione più aperta, senza schermo. E’ un problema di consapevolezza dei problemi, anche. Il nostro senso di coinvolgimento nei problemi va ben al di là della dimensione territoriale nazionale tradizionale.Ma anche per i problemi morali, quelli connessi alla difesa dei diritti umani vale lo stesso discorso. Ciò che avviene in altri paesi lontanissimi dai nostri, in termini di violazione dei diritti umani ci coinvolge direttamente.

Noi reagiamo alla violazione dei diritti umani in Darfur, per esempio, perché avvertiamo che questa è una lesione del patrimonio morale comune. E’ uno sbocco abbastanza naturale: le costituzioni dei nostri paesi contengono principi che sono necessariamente universalistici, che dovrebbero riguardare tutti.Pensiamo a un problema come quello della pace o della guerra. Il conflitto Usa-Iraq ha materialmente un riflesso nel nostro paese, perché ci coinvolge direttamente, visto che l’Italia ha deciso di prendervi parte. Ma in prima istanza poteva essere considerato un problema dei due paesi belligeranti, almeno in prima istanza. Però quando il conflitto è iniziato le nostre piazze si sono riempite di manifestanti e infiammate di partecipazione. Contro e anche pro. Ma non è questione di contenuti. Quando si parla di globalizzazione sarebbe bene, dico da costituzionalista, considerare non solo la causa che è globale, ma anche le ripercussioni. La dimensione dei problemi come l’avvertiamo noi non è più quella di un tempo. I confini sono saltati verso l’alto. Naturalmente si potrebbero fare delle distinzioni. Non tutti i problemi vedono i loro confini mondializzati. Per esempio l’Unione europea forse è persino un po’ in ritardo. Anche la costruzione del potere politico oltre che economico europeo, però, corrisponde con una concezione di questo tipo che riconsidera i confini. Verso che cosa? Verso la creazione di uno stato mondiale che esprima un potere politico di dimensione equivalente, una civitas maxima o una res publica universalis? E’ una bella e grande alternativa.Prendiamo il problema della pace.

A che si pensa? Al progetto per la pace perpetua. E’ quello che sta dietro alle Nazioni unite, creare istituzione che sia in grado di disporre autonomamente di una forza legittima, capace di sopprimere le forze illegittime. Ma se così fosse, sarebbe uno Stato, secondo la definizione di Max Weber. E’ desiderabile una prospettiva di questo genere? L’Onu ha questa idea di fondo (però è realizzata in maniera così imperfetta che ce ne siamo dimenticati). L’Onu dispone di una forza militare ma per qualsiasi operazione deve ottenere consenso di Stati o organizzazioni che dispongono di forza militare organizzata. Anzi, di solito sono questi soggetti che ottengono una deliberazione da Onu che li legittima ad agire. Tuttavia, l’idea delle Nazioni Unite è costituita da questa semplice idea di partenza: cioè, per pacificare le relazioni tra gli stati bisogna creare un potere terzo, che sia al di sopra. Siccome la guerra è uno strumento a disposizione di tutti gli stati, questo soggetto terzo deve essere superiore a tutti gli Stati. Il super-stato. Ora arriviamo a Kant. Ma prima voglio fare una citazione biblica. Ricordate la storia della torre di Babele, Genesi 11, 6, 9. Il Signore scese a vedere la città e la torre e disse: ecco, essi sono un solo popolo e hanno una sola lingua, questo è l’inizio della loro opera, della loro opera blasfema e ora quanto hanno in progetto di fare non sarà loro impossibile. La torre è blasfemia: è una bestemmia, la sfida ultima all’Onnipotente.

Dice il Signore: scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua e disperdiamoli su tutta la terra. Questa narrazione biblica è interpretata nel senso che Dio scende a vedere l’opera di empietà degli uomini e distrugge la torre, punisce gli uomini. Ma Stefano Levi della Torre, in un libro che vi segnalo dal titolo “Zone di turbolenza”, pubblicato nel 2005 da Feltrinelli, interpreta questa narrazione in altro modo. Ciò che Dio ha fatto a Babele è uno dei doni più belli che il Signore abbia fatto all’uomo, ha creato il pluralismo, la diversità. Dalla torre di Babele, rappresentazione più efficace del potere totale, Dio trae lo spunto per creare il potere plurale.Tutti usano la forza e vogliono creare il potere più forte di tutti. La prospettiva kantiana è altra. Non è solo problema di federalismo, è cosa molto più profonda.
Sempre per restare sul terreno biblico, sapete che nel giorno della Pentecoste scende lo Spirito santo che illumina la mente dei 12 apostoli. Gli atti degli apostoli dicono che i discepoli del Cristo escono, parlano e sono compresi da tutti. Ma i testi non dicono che parlano la stessa lingua, solo che vengono compresi da tutte le popolazioni, i parti, i medi, i cappadoci eccetera. Il vero miracolo sta nel fatto che i discepoli parlano la loro lingua e sono compresi dai popoli, ciascuno nella propria lingua.Veniamo a Kant. Il filosofo parla della federazione dei popoli, non di un super-stato. Federazione di popoli che ha alla base un accordo fra i popoli, per rinunciare ciascuno all’uso della forza.

E’ una prospettiva completamente diversa. Il superpotere, oltre che orribile mostro del dispotismo, corrisponde all’immagine ironica della pace che sta nell’introduzione di questo saggio kantiano, la pace assicurata da una superpotenza universale sarebbe quella definita con ironia ricordando l’insegna dell’oste irlandese che stava davanti a un cimitero con l’insegna: “Per la pace perpetua”. Entropia mondiale. La pace come assenza di vita e di spontaneità. Questa prospettiva dell’unificazione dei problemi universali tramite un potere universale oggi sarebbe utopistica, sarebbe una trasfigurazione di un potere particolare. Sarebbe utopica l’idea di un ordine a cui partecipano tutti i soggetti politici della terra. Forse, l’idea che è almeno utopica come questa è che la gestione di tutti questi problemi, almeno di alcuni e almeno parzialmente, si fa con la via del diritto, non della forza. Le nostre società si reggono su due gambe: la politica, come monopolio della forza, e il diritto. Normalmente le due cose vanno insieme. Ma solo normalmente, perché per tanti secoli c’era la forza e non il potere. Modernamente, almeno come lo intendiamo noi, lo stato costituzionale è quello che regge l’equilibrio delle due cose. Ma ci sono delle grandi questioni che mettono in gioco i principi fondamentali. Ci sono questioni che le corti di tutto il mondo, nazionali e sovranazionali, come la corte di Strasburgo o quella del Nicaragua o la corte dell’Aja, c’è tutto un tessuto di alte giurisdizioni che nell’affrontare questi problemi si ispirano certo ai testi fondativi ma anche e soprattutto all’evoluzione e all’elaborazione delle altre corti.

Sotto c’è la consapevolezza che una causa in tema – supponiamo – di brevetti di medicinali che si svolge durante una corte americana, interessa i paesi dell’Africa in quanto questi medicinali abbiano una rilevanza nella cura dell’Aids. Si è molto discusso tra giuristi se questo incrocio di giurisprudenze sia un fatto costruttivo o sia un imbastardimento del diritto nazionale. Per esempio in America, questa controversia interna alla corte suprema tra interpretazione aperta e una chiusa, cioè originalistica in base a quello che la convenzione di Philadelfia aveva inteso dire. Perché un’interpretazione aperta mette a rischio, secondo gli americani, l’originalità della loro costituzione. Ricordo una discussione sulla pena di morte eseguita a distanza di 13 anni dalla pronuncia. Un problema irrisolvibile: 13 anni in galera, in attesa della condanna è una tortura. Un trattamento consistente in pene crudeli e inusuali vietati dalla Costituzione americana. Un tema irrisolvibile, perché poteva risolversi con la soluzione di togliere la possibilità del ricorso. La vita del diritto ha una sua autonomia rispetto alla politica.
Le opinioni pubbliche influiscono sui governi. La difesa della pace, per questa via, presuppone la democrazia.
Confini verso il basso: penso alla linea Tav in val di Susa e alla base di Vicenza. La sfida alla democrazia è che lì si scontra una dimensione del problema che è nazionale con diritti e quindi pretesa di gestione dei diritti che non è affatto territoriale nel senso di limitato alla nazione.

Ma se si riconosce l’esistenza dei diritti, sono opere che incidono sui diritti di collettività specifiche, questo è un problema di teoria della democrazie. Noi di solito siamo abituati a pensare questi problemi in termini statalistici. Oggi non credo che si possa sfuggire dalla tecnica del bilanciamento, ma ci mancano gli strumenti.
* Questo testo è la trascrizione della lezione che il presidente emerito della Corte ha tenuto alla Scuola di formazione politica di LeG, a Pavia.

Nato a San Germano Chisone (To) il 1° giugno 1943. Laureato a Torino, Facoltà di Giurisprudenza, nel 1966, in diritto costituzionale, col professor Leopoldo Elia.

  • Professore di diritto costituzionale e diritto costituzionale comparato alla Facoltà di Giurisprudenza e alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Sassari dal 1969 a 1975.
  • Professore di diritto costituzionale comparato alla Facoltà di scienze politiche dell’Università di Torino dal 1975.
  • Professore di diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino, dal 1980 al 1995.

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