Laicismo in terra martyrum* 2

12 Mar 2007

Parte prima // Sabato 14 il ministro Falcucci e il cardinale Poletti, presidente della CEI, venivano fotografati mentre brindavano allo storico evento dell’avvenuta firma dell’Intesa; lo stesso giorno il mini-stro aveva ottenuto da un Consiglio dei ministri (tutto preso da un’aspra discussione sul «fiscal drag») il consenso all’Intesa, necessario per trasformarla in decreto presidenziale e con ciò renderla operativa.Dell’incredibile vicenda, una cosa è chiara: quando il ministro della P.I. si presentò alle Commissioni parlamentari per fornire le sue generiche informazioni e per riceverne gli onesti e preoccupati consigli, aveva in tasca non già un’informe «bozza», bensì il testo sostanzialmente definitivo dell’Intesa concordata con la CEI. La discussione parlamentare fu, dunque, soltanto una farsa. Di essa, il ministro non aveva certo alcuna intenzione di tener conto; né, d’altronde, l’avrebbe potuto, essendo l’Intesa già bell’e fatta e mancante solo della firma e del brindisi.«Cosa fatta capo ha». Ma è bene ricordarsi che la procedura seguita per quest’Intesa – accordo con la CEI, breve e inutile incontro con il Parlamento, decreto presidenziale -, potrà ripetersi per le prossime Intese previste: tutta la materia che dà corpo concreto alla «collaborazione» tra Chiesa e Stato voluta dal Concordato del febbraio ’84 sarà dunque sottratta a priori alla discussione e alle decisioni del Parlamento e al controllo dell’opinione pubblica interessata.La tesi sostenuta dal ministro è che a norma del Concordato non c’è altra via che questa: firma delle Intese e poi subito decreto presidenziale.

Ma se tale è la tesi, o meglio la scelta politica del ministro della Pubblica Istruzione, il vero è tutt’altro: il Concordato prescrive solo che si debbono raggiungere intese bilaterali, ma quanto alla procedura interna italiana non dice nulla. Perciò già ora, se il governo l’avesse voluto, una volta raggiunto l’accordo con la CEI, po-teva portarlo in Parlamento per un vero dibattito da concludere con un voto su un ordine del giorno specifico e motivato, o con una legge di delega al governo per procedere alla decretazione. Di norma, infatti, la materia dei programmi e di altri ordinamenti scolastici è affidata a decreti, ma sulla base di deleghe. Soltanto una scelta politica in favore delle preferenze della CEI può spiegare perché questa regola sia stata infranta per l’insegnamento religioso nelle scuole.Ma se l’Intesa è stata portata a compimento con una procedura arbitrariamente imposta, che dire dei suoi contenuti?Nel corso della discussione, per esempio, fu ben chiarito al ministro che l’ora alternativa all’ora di religione cattolica, se deve esserci, deve avere pieno valore e dignità, per evitare discriminazioni culturali e morali a danno degli studenti d’altra confessione religiosa o indifferenti. Ebbene, la soluzione trovata è che mentre l’ora di religione cattolica è «curricolare», cioè normalmente stabilita dalle disposizioni ministeriali, l’ora alternativa è affidata all’arbitrio dei singoli istituti. Sarà, questa, dunque un’ora di seconda categoria; il primato effettivo nell’ordinamento scolastico statale resta alla religione.Rispetto al vecchio regime, non cambia nulla, dunque, o solo marginali dettagli.
Nel dissonante coro che si è levato dopo la sanzione e pubblicazione dell’Intesa sull’insegnamento della religione cattolica nelle scuole, bisogna ora discernere e isolare la linea fondamentale.

Qual è il vero problema che la confusa vicenda propone? Di che cosa, in sostanza, ci si deve preoccupare? Si tratta d’una faccenda strettamente scolastica, o piuttosto del segnale d’una realtà politica assai più ampia? E quale?Certo, l’ora d’insegnamento di religione nella scuola media e la parallela ora «alternativa», la selezione e il ruolo degli insegnanti di religione, la loro presenza e peso nei consigli d’istituto, i libri di testo, il rispetto per la libertà dei fedeli delle altre confessioni religiose (ebrei, protestanti, ecc.), sono tutte questioni importanti con le quali le associazioni, le comunità, le confessioni, gli indifferenti, i genitori, i giovani, hanno ora a che fare, s’interrogano e aspettano di vedere cosa accadrà in pratica. Ma tutto ciò potrebbe non esser tanto grave. Dopo tutto, se fosse vero, come in gran parte è, che nulla è cambiato rispetto alla situazione precedente del nuovo Concordato, era quella situazione davvero tanto drammatica? Da decenni l’insegna¬mento cattolico nelle scuole conta poco, vale spesso quasi niente (o consta di vaghi dilettantismi sociologici).E di questi tempi, è il caso di far tanto chiasso per una storia del genere? Non è, a pensarci bene, più che naturale che il governo, comprese le sue componenti laiche, immerso nelle contese sul debito pubblico e i tagli di spesa, sul fiscal drag e la riforma dell’IRPEF, sul condono edilizio e sul CSM, sui memoriali di Gelli e sui servizi segreti, sulla crisi dell’Europa e sulle guerre stellari, abbia seguito con poco impegno il corso dell’intesa tra la Falcucci e Poletti, e l’abbia approvata in un’oretta cambiando qualche parola e assentendo unanime?Eppure, questa vicenda con la sua conclusione ha una gran¬de importanza.

Essa, infatti, dimostra (ancora una volta) la grande ambiguità del nuovo Concordato, suscettibile di interpretazioni diverse e perciò docile ai voleri di chi deve interpretarlo nell’atto di stipulare le Intese da esso previste.Dimostrare qui per esteso l’ambiguità del testo concordatario del febbraio ’84 è impossibile. Basterà dire che un semplice confronto tra le successive «bozze» della sua stesura, durata molti anni, mostra come a mano a mano il suo carattere iniziale di adeguamento del Concordato alla Costituzione democratica sia passato in secondo piano rispetto all’esigenza della Chiesa post-conciliare di ottenere, sotto la veste della reciproca tolleranza e della «collaborazione», ampie possibilità di intervento nella realtà italiana, in forma meno rigida che in passato, ma in compenso più elastica e penetrante. Proprio l’aspetto più apparentemente «aperto» del Concordato, e cioè la decisione di demandare la definizione delle materie particolari di comune interesse alla stipula di successivi accordi e intese bilaterali, rivela la sapiente abilità della Chiesa: piuttosto che mostrarsi, come un tempo, autoritariamente esi-gente, essa si è riservata di trattare di volta in volta con lo Stato confidando nella propria capacità di imporre sagacemente le proprie interpretazioni delle clausole concordatarie, e con ciò la propria volontà – e confidando altresì nella scarsa volontà e capacità dello Stato di dare e di imporre interpretazioni a sé favorevoli.In effetti, cosa accadde in occasione dell’Intesa sugli Enti e beni ecclesiastici, se non questo, che lo Stato accettò di fatto i contenuti e le procedure di approvazione più favorevoli alla Chie-sa? E nel caso di quest’Intesa sulla religione cattolica nelle scuole è accaduto il medesimo: es-sa è stata condotta e si è conclusa con una procedura favorevole alla Chiesa, in modo da garantire ad essa il massimo possibile di vantaggio (compatibilmente con la generale secolarizzazione della società e della scuola italiana).

Infatti, era davvero obbligatorio, a norma del Concordato, che l’Intesa passasse del tutto al di fuori del Parlamento – prima e dopo la sua stipulazione? Certamente no. Ma era interesse della Chiesa che ciò avvenisse, per molte ragioni, e in primo luogo per evitare il fastidio di essere coinvolta in una discussione nazionale di dubbio esito.Grande accusato di questa vicenda, in cui si è rivelata tutta la molle reverenza dello Stato nei confronti della Chiesa, è stato il ministro della Pubblica Istruzione Franca Falcucci. La quale, certo, è stata favorevole sia al contenuto dell’Intesa, sia al modo seguito nel renderla operante; ma come non prendere atto delle sue ragioni quando allontana da sé la responsabilità politica della vicenda, sottolineando che non solo ella tenne sempre informato il presidente del Consiglio Craxi delle trattative, ma gli fornì il 26 novembre il testo definitivo, che fu da lui approvato; e rivelando che fu proprio il presidente del Consiglio a dirle esplicitamente che il testo non andava presentato al Parlamento? È perfino accaduto, pare, che un ministro laico, che aveva chiesto a un alto personaggio del gabinetto del Presidente Craxi notizie sull’Intesa, si sia sentito rispondere che ciò non lo riguardava e che avrebbe saputo tutto a cose fatte. Debolezza dei laici, certo, vi è stata; ma tutt’altro che debole è la scelta del Presidente di reggere il gioco alla Conferenza Episcopale – cui ovviamente non c’era da aspettarsi che un ministro democristiano fosse ostile.

Lucida scelta. Già i peana innalzati da Palazzo Chigi a un Concordato tanto apparentemente «liberale» quanto sostanzialmente «cattolico post-conciliare», fecero pensare che fosse in corso una grande operazione d’opportunistica resa alle ragioni di San Pietro; e conferma ne venne subito, sulla vicenda degli Accordi sugli Enti e beni ecclesiastici, quando la sottile esegèsi costituzionalistica del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio (col discutibile consenso dei Presidenti delle due Camere) indusse il Parlamento a rinunciare ad ogni emendamento e a ogni voto che non fosse di ratifica.
Le cose dette di recente sulla scuola italiana da Claudio Martelli toccano problemi reali e destano preoccupazioni da non sottovalutare.Va di moda, oggi, parlare d’ogni struttura destinata a fornire «prodotti» come d’un’azienda industriale, pensandone la gestione in termini manageriali e commisurandone la validità sulla base del rapporto tra input e output, investimenti e fatturato, ecc. Anche Martelli indulge a questa moda, anzi vi fonda tutto il suo discorso, duramente critico per la scuola statale, «la più grande azienda italiana… un’azienda dissestata». Ma la parola «azienda» s’adatta alla scuola solo come metafora, e per di più fuorviante. Nella scuola entrano denari ed escono educazione e istruzione: valori, cioè, tra loro del tutto incommensurabili. Basti ricordare che la scuola italiana d’altri tempi, con insegnanti alla fame, attrezzature edilizie e strumentali mediocri o inesistenti, forniva nel complesso un «prodotto» educativo e d’istruzione di cui ora vediamo i limiti sociali e culturali, ma che allora era obiettivamente buono, spesso ottimo.

Laddove oggi vi sono istituti scolastici statali o privati ben allocati e forniti di strumenti moderni, il cui «prodotto» resta più che scadente. Di fatto, in base alla conoscenza della realtà è perfettamente pensabile, in Italia, una scuola fornita di aggiornate strutture, servizi e moderno management, che sia una cattiva scuola, se giudicata col solo metro valido, il risultato educativo e d’istruzione. L’impostazione aziendalistica e manageriale del discorso sulla scuola, in realtà, è ingannevole e non regge, come le nazioni più progredite (vedi Stati Uniti) ormai ben sanno. Vale per la scuola il tipo di crudele analisi che A. Luttwak ha fatto per le forze armate (americane): la concezione manageriale va bene per ottenere tutto, tranne la sola cosa per cui le forze armate esistono, cioè la capacità di vincere le battaglie.È per questo che i problemi legislativi concreti, lo studio dei programmi, dei metodi, delle finalità, la questione degli insegnanti e dell’organizzazione interna della scuola hanno e debbono avere il primato: perché il giudizio sull’utilità della spesa per la scuola può riferirsi solo all’assolvimento dei compiti educativi che hanno le loro ragioni in altro che nella spesa.Il rifiuto, da parte di Martelli, della scuola statale come tabù e la sua preferenza per un equo rapporto concorrenziale tra scuola statale e scuola privata, avrebbe senso se la concezione a-ziendalistica fosse valida; ma poiché non lo è, si giustifica solo in termini politici: meno Stato e più privato.

Ciò risulta tanto più chiaro, quanto più le tesi del vicesegretario del PSI appaiono affatto inconsapevoli dell’enorme difficoltà d’una loro traduzione in progetti concreti, cioè della loro totale astrattezza. Portare il rapporto statale/pubblico dall’ordine attuale di 90/ 10 a un rapporto dell’ordine 50/50, come vagheggia Martelli, significa infatti mettere sin d’ora in atto un processo di rude smobilitazione della scuola statale e di parallela mobilitazione (ma da par-te, e coi soldi di chi?) della scuola privata, destinato a durare parecchi decenni, con una revi-sione completa delle strutture statali centrali e periferiche, una mappa della distribuzione territoriale, demografica e sociale del tutto nuova, e, naturalmente, una legislazione sull’istruzione i cui lineamenti non si possono oggi neppure intravedere.Siamo perciò fuori del quadro di ipotesi di lavoro realmente verificabili, e non solo per un Paese come l’Italia, ma per qualsiasi Paese. Di concreto resta solo l’auspicio di smantellamento e dequalificazione della scuola statale e di massiccia incentivazione (finanziaria e politica) dell’espansione della scuola privata. Finora si discuteva su quanto favore lo Stato dovesse accordare alla scuola privata; ora si dovrebbe discutere, nientemeno, su quanto sfavore lo Stato debba dimostrare verso la scuola statale… Giacché l’equilibrio concorrenziale non si raggiungerebbe mai spontaneamente, si dovrebbe operare da una parte per la scuola privata, dall’altra contro la scuola statale; per di più, in una prospettiva temporale assurda e in un quadro legislativo praticamente impensabile.Quanto al discorso sull’autonomia degli istituti scolastici statali, esso è certo in sé valido, ma è anche terribilmente tardivo rispetto alla realtà attuale quale si è determinata, in lungo corso di anni, in forme rigide.

Qui si dovrebbe prevedere un impegno progettuale e legislativo di grande mole e difficoltà, che peraltro richiederebbe una riforma radicale della sola (e decisiva) realtà italiana che nessuno, in tre anni di governativa enfasi riformatrice, ha osato toccare: la Pubblica Amministrazione.
Nessuno pensa che la scuola italiana vada bene così com’è e che non meriti l’impegno d’una serie di lungimiranti riforme delle strutture istituzionali e amministrative e dei contenuti e metodi educativi e culturali. I mali esibiti in lungo elenco da Claudio Martelli («Repubblica» del 9 marzo), li conoscono tutti, e si potrebbe persino aggiungere qualcosa. Il disaccordo tra noi, perciò, solo marginalmente può riguardare l’anamnesi e la descrizione della malattia: esso riguarda, ora come ora, soprattutto la concezione e il metodo della cura. Martelli fa bene a enfatizzare la grandezza e urgenza del problema e a insistere sul fatto che esso va affrontato con mente e volontà libere da schematismi, con coraggio e ampiezza di vedute; in pratica, poi, si muove sull’astratto.Dobbiamo ben guardarci dal dimenticare che nell’interminabile «guerra» per il miglioramento e rinnovamento della scuola italiana, il progressismo astratto ha fatto perdere forse altrettante battaglie quanto il conservatorismo ottuso (il che vale, del resto, per tutti i problemi italiani). La mia opinione, perciò, è che in questo campo si debba essere non meno accortamente realisti che audacemente idealisti: se, infatti, si perde di vista la realtà effettuale, con le sue implicite potenzialità di miglioramento o di ulteriore decadenza, non si faranno riforme né grandi né piccole, ma si progetteranno rivoluzioni abortite.Scrive Martelli: «E figuriamoci se i socialisti hanno paura di proporre di cambiare la costituzione della scuola avendo proposto da tempo di cambiare la Costituzione della Repubbli-ca!»: ma proprio sullo spirito di questa affermazione esclamativa s’appunta il mio dissenso.

Come agitando clamorosamente il mito del cambiamento della Costituzione della Repubblica si rischia di ostacolare le fattibili ed opportune riforme costituzionali (o di favorirne un’attuazione confusa, improvvisata e strumentale), aggravando i mali presenti dello Stato democratico e mettendo in crisi anche ciò che funziona, così un discorso agitatorio sul cambiamento della costituzione della scuola può contribuire allo sfascio ulteriore della scuola attuale, senza produrre nulla d’efficace quanto a riforme concrete e operanti.Nel suo complesso, il discorso di Martelli m’appare pericoloso e fuorviante proprio perché rischia d’esaurirsi nell’agitare, con poco costrutto, idee e propositi in sé attraenti. Cosa di me-glio, infatti, in Italia, d’una scuola statale e privata ricca d’autonomia, duttile, ispirata ai principi educativi, culturali, organizzativi della migliore e moderna concezione «liberal»? Ma il vero problema è come riuscire a introdurre nel sistema della scuola italiana quei princìpi «liberal»; in una scuola, lo sappiamo bene, strutturata, indirizzata, abituata in tutt’altro modo dal lungo predominio di forze sociali e politiche e d’interessi che certo «liberal» non sono. Ed è problema politico, culturale, legislativo complesso che richiede pazienza, tenacia, valutazione attenta delle reazioni e consapevolezza delle condizioni in cui si opera. Giacché non si deve mai dimenticare che la scuola (come la giustizia) è un’istituzione fondamentale e permanente della società: e perciò, anche quando è in crisi e richiede profonde riforme, deve continuare ad assolvere le sue funzioni il meglio possibile.

Con la scuola (come con la giustizia) non si può dunque ricorrere all’astuto espediente politico di aggravarne o consentirne la crisi allo scopo di render, poi, più facile la ricostruzione su nuove basi; inoltre, l’opera di riforma deve essere particolarmente attenta alla effettiva realizzabilità, perché ogni fallimento può significare, in questo campo, un peggioramento drammatico.È appunto su questo terreno, che è d’impostazione e di comportamenti – non su quello dei princìpi e delle mete ultime – che le posizioni e le iniziative dei socialisti mi sembrano oggi spesso pericolose e gravide d’effetti perversi. In pratica: ogni volta che si sta per raggiungere sulla scuola un compromesso legislativo o politico che potrebbe far avanzare la situazione mutando sensibilmente i termini delle questioni di fondo, i socialisti sparano un rilancio gigantesco di idee e proposte, il cui valore in sé diventa secondario a paragone dell’effetto concreto, che è di bloccare il tutto e lasciare le cose come sono, in un clima ancora più dete-riorato.Quanto al contesto generale in cui si colloca il problema della scuola italiana, mi sembra che Martelli ne abbia una visione non chiara e poco meditata.Egli esalta, mi sembra, il Concordato di Villa Madama come un evento e un testo che mette fine, e toglie ogni ragion d’essere, alla contrapposizione tra laicismo-Stato laico e non laicismo-Chiesa Cattolica. Ma a parte il vero contenuto di quel testo, un Concordato di per sé presuppone e sancisce l’esistenza, latente o attuale, d’un conflitto e d’una polarità tra Stato e Chiesa; è uno strumento diplomatico e politico il cui scopo è precisamente di constatare e fissare «steccati» – per bassi e scavalcabili che siano.

Perciò, la rinnovata situazione concordataria, comunque la si giudichi, crea problemi, non li annulla. D’altronde, in Italia, dove «scuola privata» significa, oggi, per il 90% «scuola cattolica», il tema della funzione e del primato della scuola pubblica laica di Stato si pone per forza in termini diversi da come si pone in paesi storicamente più fortunati, nei quali, se non altro, l’effettivo pluralismo delle confessioni religiose garantisce l’articolarsi libero e liberante delle diversità e delle tolleranze.La tesi di Martelli che ormai in Italia il laicismo ha dovunque trionfato, a me pare un brillante sofisma storico e culturale; ma a parte ciò, la realtà è che nella gestione concreta della scuola statale l’influenza dei vecchi e nuovi interessi cattolici in senso stretto, ecclesiali, ecclesiastici e politici, è fortissima. Se si ha chiaro questo dato di fatto, si può riuscire a controllare, almeno in parte, la situazione, anche con compromessi dignitosi e non opportunistici; se invece si finge che il problema non esiste e che solo un vecchio laicismo settario può immaginarsi avversari che non vi sono più, ogni compromesso diventa facile ma altresì vuoto e opportunistico.
Tutti sanno che il fronte dei problemi della scuola, dalla materna all’università, è coinvolto da anni in un complesso e contraddittorio processo di aggiustamenti, riforme, adeguamenti alle esigenze immediate e, ancor più, di lunga prospettiva. E tuttavia, non c’è stata alcuna preveggente capacità di imporre a tale processo una logica coerente e globale.Mentre i temi della grande politica agitano le acque – economia, finanza, giustizia, politica estera, ecc.

-, la pubblica istruzione sta diventando il punto più critico del rapporto di maggioranza; e anche la prova evidente che il vecchio, sperimentato metodo di governare la scuola sulla base di complicati compromessi coinvolgenti tutte le forze politiche, di maggioranza e d’opposizione, sindacali e settoriali, non funziona più. La scuola italiana era in crisi da moltissimo tempo: oggi è «destabilizzata». Un coerente governo – quale che sia – della scuola nel suo complesso, appare oggi quasi impossibile. Va detto: ormai, non per «colpa» della Falcucci.Se la Falcucci ha una colpa, è di non aver capito che da un certo momento in poi la scuola è diventata un terreno di scontro politico generale; e che il suo instancabile lavorio di proposta, tamponamento, compromesso, andava assomigliando sempre più a quell’agitarsi della preda che giova solo a stringerle addosso i nodi della trappola. Alla luce di quanto accade, viene persino il sospetto che il famigerato blitz dell’Intesa sulla religione nella scuola sia stato consentito alla Falcucci con l’astuto, duplice calcolo di guadagnare al vertice del governo benemerenze nei confronti della Chiesa e di mettere il titolare del ministero responsabile dell’operazione in una serie di pasticci irrimediabili.La scuola è oggi lo specchio dell’intero quadro politico nella sua effettiva realtà. Sarebbe un ennesimo errore di miopia giudicare che tutto si riduca all’aspirazione dei socialisti d’avere per sé, come «laici», il ministero della Pubblica Istruzione.

Certo, è possibile che mirino a questo: ma solo nel contesto d’un’alterazione generale del sistema tradizionale dei rapporti politici. D’altronde, nel momento in cui nel gioco delle strumentalizzazioni politiche vengono spregiudicatamente attirati via via tutti i più importanti aspetti della politica nazionale e istituzionale – la giustizia, la politica estera, il ruolo del Parlamento, la funzione di governo, i mass media, le libertà concrete -, lamentarsi perché la scuola non viene tenuta estranea a tali strumentalizzazioni vale poco più che un generoso richiamo a un principio di civiltà: sacrosanto ma vano. Il processo di confusa e disgregata crisi della scuola cui stiamo assistendo, mentre è certo che reca un danno incalcolabile alla scuola come servizio di cui – valga quello che valga – il Paese ha bisogno, è altrettanto certo che non reca alcun conforto alle prospettive concrete di avere domani una scuola migliore. La scuola disorientata e disgregata di oggi è comunque una realtà operante; la scuola moderna e avveniristica di cui si va parlando per il domani, è un puro mito spettacolare.Bisogna ammettere che pur senza avere alle spalle impegni solidi e strategici della maggioranza, il Parlamento aveva lavorato a lungo e con tenacia per risolvere le questioni di vita della scuola, e non solo di vita immediata. La riforma della Secondaria Superiore, pur di compromesso, era una riforma e passò al Senato: ma alla Camera è ferma, e già è chiaro che non se ne farà niente.La riforma degli ordinamenti didattici dell’Università si muove lentamente, ed è solo in fase di messa a fuoco; ma intanto il ben concreto problema dei ricercatori, che ha trovato una prima definizione nella commissione del Senato, è rimasto un campo di battaglia e come andrà a finire non si sa.

La materna, le elementari e la Media inferiore sono travagliate, oltre al resto, dal nuovissimo problema dell’applicazione dell’Intesa sull’insegnamento della religione, che fa emergere in tutti gli ordini di scuola vecchie e nuove questioni di edilizia, di personale, di governo degli Istituti, che giacevano in una relativa quiete apparente. In ognuno di questi settori i conflitti tecnici e politici sono sempre più difficile da impostare, non dico risolvere.In tale situazione, il tema di un irrobustimento della dimensione «privata» della scuola italiana, che potrebbe in effetti giovare (se trattato seriamente) per un discorso più complesso sull’istruzione pubblica in Italia, perde ogni concretezza e si trasforma in un mito d’evasione.Stringi stringi, tutto si riconduce al fatto che la maggioranza di governo non ha alcuna visio-ne concorde dei veri problemi della scuola e che l’opposizione comunista non riesce più con la critica a sollecitarla a quella concordia operativa che è nell’interesse generale. I vecchi metodi e compromessi vanno fuori uso; nuovi metodi, che non siano pretestuose chiacchiere, non se ne vedono.
La marcia di avvicinamento al nuovo regime dell’insegnamento della religione nelle scuole è tutt’altro che finita. Entro il dicembre dell’87 una nuova, fondamentale tappa dovrà essere percorsa: la ridefinizione dei nuovi programmi, da promulgarsi con decreto presidenziale, d’intesa con la CEI. Le prime notizie circa gli orientamenti prevalenti nella Chiesa inducono a credere che si tratterà d’una questione assai delicata, decisiva per la formazione culturale dei nostri giovani, e più ampiamente per la libertà della cultura in Italia.Alle brevi considerazioni che seguiranno premetto alcuni dati di diritto.1) L’art.

5, comma a del Protocollo Addizionale al Concordato suona: «L’insegnamento della religione cattolica… è impartito – in conformità alla dottrina della Chiesa e nel rispetto della libertà di coscienza degli alunni – da insegnanti che saranno riconosciuti idonei dall’Autorità ecclesiastica, nominati, d’intesa con essa, dall’autorità scolastica».2) L’Intesa tra la CEI e il ministero della Pubblica Istruzione, al punto 1, premesso che «l’insegnamento della religione cattolica è impartito… secondo i programmi che devono essere conformi alla dottrina della Chiesa», stabilisce che detti programmi saranno adottati con decreto presidenziale, previa intesa con le CEI, «ferma restando la competenza esclusiva di quest’ultima a definirne la conformità con la dottrina della Chiesa».3) La medesima Intesa, al punto 3, stabilisce che i libri di testo per l’insegnamento della religione cattolica, per essere adottati nelle scuole, «devono essere provvisti del nulla osta della CEI e dell’approvazione dell’Ordinario competente, che devono essere menzionati nel testo stesso».Punti essenziali del Protocollo e dell’Intesa sono dunque: la conformità dell’insegnamento alla dottrina della Chiesa; il nulla osta sui libri di testo dato dall’autorità ecclesiastica; la patente d’idoneità rilasciata agli insegnanti dalla medesima autorità, e la sua approvazione per la loro nomina.Tutto ciò, stando al Concordato, è normale. Ma vediamo cosa potrà accadere, se saranno confermate le notizie che circolano sugli orientamenti della Chiesa circa i nuovi programmi.Il cardinale Poletti, vicario di Roma e altresì Presidente della CEI, ha fornito di persona le linee dell’insegnamento della religione nelle Scuole Medie inferiori e Superiori della Diocesi romana, che sono le seguenti.

Nella Media inferiore, si studierà: la tradizione religiosa cattolica nella storia italiana, le relazioni tra il cristianesimo e le altre religioni monoteistiche, la Bibbia; il Cristo nella storia dei Vangeli; i sacramenti della Chiesa, la storia della Chiesa (primo e secondo millennio, la Chiesa d’oggi, le prime comunità cristiane); ricerca religiosa e problema di Dio; morale cristiana e morale di altre religioni; il cristianesimo del futuro alla luce del Concilio Vaticano II. Nelle Medie superiori: la Bibbia, religione e sessualità, amicizia, famiglia, comunità civile; il cristianesimo nella cultura antica e medievale, ideali di giustizia e povertà; storia dei concilii; i cristiani nella storia.La Chiesa si propone, dunque, d’utilizzare l’ora di religione concordataria per fornire un insegnamento di tipo non «catechistico», bensì ampiamente culturale e d’orientamento storico. Un simile sviluppo era nei voti di tutti i cattolici aperti e moderni; e del resto, da molto tempo i più sensibili insegnanti di religione hanno abbandonato l’insegnamento dottrinale dogmatico (giudicato, oltretutto, noioso e privo d’ogni interesse dai giovani d’oggi). Ma quei cattolici non potranno negare che qui sorge un grave problema che riguarda anche la loro coscienza politica e civile di uomini che credono nella libera cultura. Infatti: mentre un insegnamento di tipo dottrinale-catechistico ammette l’imprimatur sui libri e la patente d’idoneità agli insegnanti da parte dell’Autorità ecclesiastica titolare dell’ortodossia, l’imprimatur e la patente d’idoneità sono del tutto incompatibili, anzi contrastano radicalmente con un insegnamento della religione cristiana di contenuto e forma storica e culturale.

Per intenderci: l’illustrazione – poniamo – del dogma della Trinità nella sua forma cattolica, è legittimo che sia riservata ai portatori riconosciuti della dottrina cattolica; ma la storia del dogma trinitario, e così la storia delle idee etiche e sociali cristiane, della Chiesa antica, medievale e moderna, della Riforma e Controriforma (o Riforma cattolica), dei Concilii e dei dogmi, lo studio dei due Testamenti, ecc., come ogni altra storia presuppone (anche nell’insegnamento scolastico) la critica storica ed esige perciò la libertà da ogni ortodossia religiosa e non religiosa; richiede libertà di pensiero e impostazione esclusivamente scientifica, aborrendo da qualsiasi imprimatur.Ecco dunque cosa potrà accadere: che la Chiesa si giovi del Concordato non per garantirsi che la dottrina cattolica sia insegnata nelle scuole statali secondo i suoi princìpi, bensì per riservarsi il diritto di fornire ai giovani delle scuole statali una visione di fondamentali aspetti della storia umana, europea, italiana sotto il sigillo della «conformità alla dottrina della Chie-sa». Tutto quel che i nostri giovani verranno a sapere di quella storia (a parte le poche e non molto impegnative pagine dei manuali di storia e di filosofia), porterà il segno della specifica interpretazione che la Chiesa s’impone e impone: al cui fondamento sta certo una grande cultura e un secolare lavoro di dotti ma anche, inevitabilmente, un’impostazione apologetica.Il mutamento di contenuto dell’insegnamento della religione nella scuola, da dottrinale a storico-culturale, non è dunque indifferente ai fini della validità e necessità degli impegni concordatari.

Anzi, dato quel mutamento – che in sé può apparire ed essere un segno positivo della nuova concezione culturale ed educativa della Chiesa -, ne discende logicamente che la Chiesa stessa dovrebbe rinunciare al suo privilegio dell’ora di religione. Se essa si «apre» in tal modo alle esigenze moderne, come può insistere nel difendere per sé un privilegio arcaico?Il Concordato, per questa parte, non è un contenitore da riempirsi ad arbitrio della Chiesa: esso può garantire l’ortodossia della «dottrina», che è cosa di fede, ma non della «storia», che è cosa di libertà laica (anche se a studiarla e insegnarla è un cattolico). Ci sarà parecchio da discutere, e la questione è di principio.
Nicola Tranfaglia e Piero Scoppola hanno richiamato l’attenzione su un fatto sinora sfuggito a molti, e cioè che la «sparizione» della Storia Antica dai nuovi programmi delineati dal ministero della Pubblica Istruzione per il primo biennio della Secondaria Superiore è in stretto e razionale rapporto con la progettata trasformazione di quel biennio in ciclo conclusivo della scuola dell’obbligo, che s’eleverà a sedici anni. Supposta tale riforma, una modifica degli attuali programmi è comunque necessaria.Questo è vero. Ma ciò che è discutibile è il contenuto e l’orientamento culturale del programma prospettato dal ministero. Anzitutto, è troppo ambizioso e pletorico, praticamente inattuabile dato il tipo di formazione della maggior parte degli insegnanti. Ma a parte questo – che non è poco – quel che non convince è la sua falsa modernità.

Le linee di metodo e di contenuto si ispirano più che altro al rifiuto di quell’impostazione che (con sadico francesismo) alcuni chiamano «evenemenziale», sostituita con l’impostazione del tipo «strutturale», e al correlativo prevalere dell’attenzione per le generalità culturali e socio-economiche sulla concretezza della storia politico-civile; infine, c’è il predominio della dimensione del con-temporaneo su quella del passato.La questione è complicata, ma cercherò di semplificare tenendo d’occhio soprattutto l’adeguatezza del nuovo sistema al fine che si propone, in sé ottimo: fornire una conoscenza ben vissuta, non passiva né nozionistica, insegnare ai giovani i rudimenti del far da sé la storia, comprenderla e sperimentarla. Ma proprio questo fine appare difficilmente raggiungibile per la via indicata dal programma ministeriale.Sono ben noti i pericoli d’un’esposizione storica centrata soprattutto sugli «avvenimenti» politici, civili, sociali, culturali, come è quella tradizionale (o piuttosto, era), che nella pratica scolastica degenera facilmente in nozionismo generatore di disinteresse e oblìo. Ma non è un rimedio a tale pericolo una trattazione che tende a concentrare l’attenzione dei giovani su schemi storici astratti e precostituiti.Proprio perché i giovani sono bombardati quotidianamente dalla cultura schematizzante e riduttiva dell’informazione di massa, non è a scuola che si deve rafforzare questa situazione in cui essi si trovano, per nulla favorevole allo sviluppo del loro senso critico e della capacità individuale di giudizio e creatività.Raccontare le vicende della storia italiana, europea e mondiale dal 1918 a oggi in forma necessariamente riassuntiva può dar luogo, indubbiamente, a una barbosa ed elusiva serie di nozioni.

Ma ficcare in testa allo studente in età adolescente concetti prefabbricati come «crisi della democrazia europea» o «crisi dell’eurocentrismo» – di per sé utili solo se sottoposti ogni volta a revisione e falsificazione critica – significa fornire scatole vuote di contenuto e favorire probabilmente una precoce abitudine a guardare la realtà attraverso occhiali «ideologici».Ogni storia di tipo «antropologico» vale soltanto come sistemazione metodologicamente orientata di conoscenze critiche di fatti reali; in altre parole, per essere seria e produttiva deve collocarsi a livello universitario e post-universitario.Resto convinto che proprio in rapporto all’esperienza dell’età della prima e decisiva forma-zione mentale (fermo restando che la «storia» è comunque la disciplina più difficile da accostare) l’approccio «politico e civile» è il più ricco di sperimentabilità e di potenziale critico-formativo. Certo, bisogna disporre di buoni manuali che non siano catechismi di fatterelli e d’insegnanti addestrati che sappiano discutere, spiegare e far sperimentare, con metodi attivi e aggiornati. Quanto alla concentrazione sull’età contemporanea, è giusto che i giovani comincino presto a conoscere il mondo in cui vivono. Ma, anche qui, bisogna andar cauti e non scambiar per ultime novità orientamenti che stanno da tempo mostrando la corda. Negli Stati Uniti, ad esempio, modello di insegnamento tutto concentrato sul presente, si sta riflettendo sulle paurose conseguenze di tale impostazione: a furia di ricevere informazioni utili per vivere l’oggi e il domani, i giovani americani non sanno più affatto in che mondo vivono.

La cultura di massa con i suoi potentissimi media offre quotidianamente un’imponente quantità di informazioni attuali; la scuola non deve ripetere quest’esperienza, bensì fornire occasioni di approfondimento prospettico. È assurdo, certo, che un giovane italiano debba saper distinguere tra consoli e tribuni della plebe, ma non sappia che una cosa è il presidente della Repubblica e un’altra il presidente del Consiglio; che sia ammaestrato sulla crisi agraria del II secolo a.C. ma non sulla riforma agraria del 1950. A simili errori si deve ovviare, non però privando i giovani di una energica presa di coscienza della dimensione del passato, che è di de-cisiva importanza per formare un essere maturo e libero – non un idiota automatico -; un uomo che per gettare uno sguardo su ciò che intellettualmente lo separa dalla condizione di puro strumento della produzione non debba confidare soltanto nei documentari tv sugli Etruschi o sulle tracce argillose dell’antica Ebla. Del resto, la dimensione del presente e del futuro è già di per sé fortissima nella scuola, come è ovvio: non si insegna la matematica, la fisica, la geografia, l’economia, ecc., del passato, bensì quella di oggi. Ma in una formazione culturale vera non può mancare una seria esperienza del passato. È forse democratico proporsi di fare dei giovani destinati al «lavoro» degli automi tecnologici senza radici?Mi chiedo, dunque, se nei tre anni del nuovo biennio dell’obbligo non sarebbe meglio, invece di perseguire un insegnamento storico schematico e piattamente contemporaneo, ripercorrere (a un livello critico e metodico comunque assai superiore a quello delle elementari) tutto l’arco storico che va «dall’antichità ai giorni nostri», lasciando la sua giusta parte al mondo antico e medievale; salvo, semmai, a soffermarsi più a lungo sull’età contemporanea.

Una proposta del genere presuppone forse una revisione anche dei programmi di storia della Media inferiore e del «liceo»; ma qui non posso neppure accennarne.Cambiare, sì, ma insegnare storia; guardare all’oggi ma non dimenticare il passato, cioè il valore umano di «età così lontane l’una dall’altra, tra le quali tanti giorni sono venuti a inter-porsi, – nel Tempo».
È dunque vero che in Italia è in atto una ripresa del vecchio anticlericalismo, del laicismo intollerante? A sentire il cardinal Poletti, la «Civiltà Cattolica», Comunione e Liberazione, una parte dell’Azione Cattolica e della DC, e altri ancora, parrebbe di sì. C’è chi ha indicato nelle pretese «anticlericali» dei cosiddetti laicisti il pericolo d’un regresso del nostro Paese, e chi ha perfino rievocato lo spettro volgare dell’«Asino» di Podrecca e Galantara. Ciriaco De Mita, da sempre assai sensibile al tema ideale e politico del rapporto tra cattolici e laici, ha denunciato «rigurgiti», «residui di intolleranza», «clericalizzazione alla rovescia», «provincialismo puro». C’è anche, d’altronde, chi si esprime più cautamente mostrando di dubitare dell’imminenza di un tale problema: così, per esempio l’Azione Cattolica del suo presidente Alberto Monticone; anche il giudizio del Consiglio della CEI appare abbastanza moderato.Ma c’è davvero questo rinnovato anticlericalismo, questo «iperlaicismo» fuori della storia, ostile alle ragioni e alla libertà della Chiesa e dei cattolici italiani? Il mio parere di laico è che non c’è nulla di ciò, oggi, in Italia.

Non vedo in atto alcun fronte anticlericale, alcuna intolleran-za laica, alcuna aspirazione a isolare o «ghettizzare» i cattolici e il clero italiano. Escludo che il senso della storia, della realtà, della misura, delle condizioni particolari in cui si attua nel nostro Paese la libertà moderna, stia venendo meno nei laici. C’è, è vero, l’esteso manifestarsi d’una più viva sensibilità laica per le questioni di principio, un bisogno di chiarezza e di chiarimento, ma cos’ha a che vedere questo con l’anticlericalismo o l’intolleranza?In realtà, nell’attuale fase (che potrà durare a lungo) di complessi rapporti e difficili questioni da risolvere, con possibilità di tensioni, contrasti, incidenti, il problema vero non è tanto quello di garantire il generale equilibrio pacifico tra i laici e i cattolici oggi esistente: bensì, piuttosto, di badar bene che non prevalgano errori di valutazione che potrebbero infine innescare un processo di opposte mobilitazioni culminante nella definizione netta e nello schieramento delle forze in campo. Ebbene, io mi chiedo se la nervosa e irrazionale denuncia dei laici come «anticlericali», non sia proprio un pericoloso errore di valutazione (e temo anche che una parte, sia pur piccola, dei cattolici subisca la tentazione conscia o inconscia di evocare il nemico). Certo, lascia molto perplessi che ambienti ecclesiastici e uomini cattolici di tradizio-nale e affinata esperienza dei fatti e dei valori indulgano con tanta passione a giudizi a tal punto irrealistici.

È mai possibile che la vicenda dell’ora di religione (certo difficile e tutt’altro che chiusa) sia bastata a provocare tali reazioni e preoccupazioni?Certe cose, ad ogni modo, è bene chiarirle. Una prima è questa: per i laici non è affatto impossibile (l’hanno dimostrato molte volte, qualcuno dice anche troppe…) valutare con obiettività le ragioni, le realtà, i bisogni dei cattolici, anche dei più militanti, del cattolicesimo ecclesiastico; quel che invece per il laico è purtroppo veramente difficile, è riuscire a farsi credere sereno e obiettivo dai cattolici. Un laico, per esempio, non condivide certo (e perché dovrebbe?) la concezione dominante tra i cattolici e nella Chiesa italiana, per la quale la dottrina di Santa Romana Chiesa va insegnata ufficialmente nella scuola pubblica statale da insegnanti la cui ortodossia è garantita e controllata dall’autorità diocesana. Ma sa ben rendersi conto che questa convinzione è tuttora la più forte tra i cattolici e nella Chiesa e di ciò comprende ragionevolmente le cause lontane e vicine. Tuttavia, se s’azzarda a sostenere la tesi (del resto anche di molti cattolici), che gioverebbe non solo alla libertà di tutti, ma anche ai cattolici stessi e alla Chiesa, se la religione cattolica s’insegnasse fuori della scuola pubblica statale (per esempio nelle scuole cattoliche, nelle parrocchie, o in locali messi a disposizione dallo Stato), ebbene, se s’azzarda a dir questo, il laico sa già che rischia l’accusa perentoria di voler estromettere la religione, la tradizione, la morale cattolica della vita italiana, di voler attentare alla libertà dei cattolici e della Chiesa: in una parola, d’essere anticlericale!E si provi il laico a osservare che qualsiasi Concordato non fa che riconoscere e sancire l’esistenza d’un potenziale conflitto perpetuo tra Stato e Chiesa (i «trattati» si fanno tra nazioni «straniere»), sicché può alla lunga danneggiare anziché favorire la quiete religiosa: si provi, e sarà detto laicista nemico della pace religiosa, ostile alla Chiesa, e magari suo persecutore.

Ebbene, in via realistica e politica, ci si rassegna a tali incomprensioni, ci si adatta: ma i cattolici non dovrebbero pretendere di più. Non possono, per esempio, accusare i laici di provinciale anticlericalismo se ricordano sempre che prima del Concilio c’è stata la Costituente (nella quale tanta parte ha avuto il cattolicesimo politico); il cui prodotto fu una Costituzione ispirata alla concezione dello Stato laico moderno, nel quale non possono esserci privilegi istituzionali per nessuna confessione od organizzazione religiosa. C’è l’art. 7, è vero: ma ognuno sa che può essere interpretato in vari modi, tutti però tali da escludere sia la subordinazione della Chiesa ai superiori interessi dello Stato, sia il privilegio istituzionale per diritto divino della Chiesa Cattolica.È forse anticlericale chi non crede affatto che l’interpretazione del Concordato, delle sue conseguenze e dei suoi rapporti con i princìpi costituzionali e giuridici italiani, debba e possa essere soltanto quella che emana dalla Curia, dalla CEI, dai giuristi cattolici, e che i politici democristiani fanno propria? Ma poi, c’è da chiedersi quale stravagante senso della realtà passata e presente animi coloro che oggi denunciano il pericolo anticlericale. Ragioniamo: la «Civiltà Cattolica» è forse oggi la medesima di cent’anni fa? Certamente no, è diversissima. E come allora il laicismo di oggi può essere lo stesso, o l’erede, dell’anticlericalismo degli amici dell’«Asino»? Dopo sessant’anni e più di cattolicesimo politico democratico, dopo quarantanni d’egemonia democristiana – e dopo l’avvento in Italia di grandi forze politiche e sociali estranee al passato risorgimentale e antirisorgimentale -, è forse l’Italia cattolica d’oggi la stessa che era al tempo del Papa rinserrato in Vaticano, della scomunica alla monarchia liberale e unitaria, del non expedit, dell’Opera dei Congressi? Tutt’altro.

Ma come potrebbe, allora, il laicismo libe-rale e democratico esser oggi il simile dell’aggressivo laicismo statale d’impronta massonica e libero-pensatrice, del prefetto come alternativa ideologica al vescovo, dei farmacisti atei, dello pseudo-scientismo materialista irridente all’impostura Romana?Il laicismo teme la propria degenerazione anticlericale come la perdita di sé stesso; e così la Chiesa e tutti i cattolici temessero altrettanto la propria tentazione clericale come la negazione di se stessi!
* Laicismo in terra martyrum, cap. III, Italia paradiso perduto, Garzanti, 1988
Digitalizzazione dall’originale a cura:CIRCOLO PADOVANO DI LIBERTÀ E GIUSTIZIA

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