Una parabola per il dopo Orvieto

23 Ott 2006

Mentre ascoltavo, nella affollata platea del Palazzo del popolo di Orvieto, alcuni degli interventi – che, pur ribadendo formalmente l’adesione al partito democratico, avanzavano preoccupazioni sulla garanzia delle rispettive appartenenze e delle loro tradizioni culturali, si interrogavano sulla collocazione del nuovo partito nel Parlamento europeo, si domandavano come, nel nuovo contesto, sarebbero stati risolti alcuni dei problemi che negli ultimi tempi hanno più direttamente colpito la sensibilità del mondo cattolico – mi è tornata alla mente questa parabola che avevo letto molti anni fa in un delizioso libretto di Bertold Brecht (Storie da calendario, Torino, Einaudi, 1972) e che qui riporto per comodità del lettore.
LA PARABOLA DI BUDDA SULLA CASA IN FIAMMEGotama, il Budda, insegnava la dottrina della Ruota dei Desideri, cui siamo legati, e ammoniva di spogliarsi d’ogni passione e così senza brame entrare nel nulla, che chiamava Nirvana. Un giorno allora i suoi discepoli gli chiesero:- Com’è questo Nulla, Maestro? Noi tutti vorremmoliberarci da ogni passione, come ammonisci; ma spiegaci se questo Nulla in cui noi entreremo è qualcosa di simile a quella unità col creato di quando si è immersi nell’ acqua, al meriggio, col corpo leggero quasi senza pensiero, pigri nell’acqua; o quando nel sonno si cade sapendo appena di avvolgersi nella coperta e subito affondando; se questo Nulla dunque è così, lieto, un buon Nulla, o se invece quel tuo Nulla è soltanto un nulla, vuoto, freddo, senza significato.A lungo tacque il Budda, poi disse con indifferenza: – Non c’è, alla vostra domanda, nessuna risposta.

Ma a sera, quando furono partiti, sedette ancora sotto l’albero del pane il Budda e disse agli altri, a coloro che nulla avevano chiesto, questa parabola: – Non molto tempo fa vidi una casa. Bruciava. Il tetto era lambito dalle fiamme. Mi avvicinai e m’avvidi che c’era ancora gente, là dentro. Dalla soglia li chiamai, ché ardeva il tetto, incitandoli a uscire, e presto. Ma quelli parevano non aver fretta. Uno mi chiese, mentre la vampa già gli strinava le sopracciglia, che tempo facesse, se non piovesse per caso, se non tirasse vento, se un’altra casa ci fosse, e così via. Senza dare risposta uscii di là. Quella gente, pensai, deve bruciare prima di smettere con le domande. Amici, davvero, a chi sotto i piedi la terra non gli brucia al punto che paia meglio qualunque cosa piuttosto che rimanere, a colui io non ho nulla da dire. Cosi Gotama, il Budda. Ma anche noi, che non più ci occupiamo dell’arte della pazienza ma piuttosto dell’arte dell’impazienza, noi che tante proposte di natura terrena formuliamo, gli uomini scongiurando a scuoter da sé i propri carnefici dal viso d’uomo, pensiamo che a quanti, di fronte ai bombardieri del capitale, già in volo, domandano, e troppo a lungo, che ne pensiamo, come immaginiamo il futuro, e che ne sarà dei loro salvadanai e calzoni della domenica, dopo tanto sconvolgimento, noi non molto abbiamo da dire.
Riflettiamo su questa parabola e cerchiamo di intenderne la stretta attinenza al modo con cui una parte non insignificante dei protagonisti del dibattito politico sul partito democratico ne ha indirizzato lo svolgimento.Una domanda per tutte: coloro che non erano presenti ad Orvieto (nel tentativo di salvaguardare gelosamente la loro appartenenza) e coloro che, pur presenti, hanno preferito accentuare gli interrogativi sul futuro piuttosto che rappresentare la drammaticità del presente siamo sicuri che non intendessero salvaguardare, per riprendere l’immagine di Brecht, i “loro salvadanai e calzoni della domenica”? E cosa sono per un politico (o per un partito politico) i salvadanai e i calzoni della domenica se non le rendite di posizione, le strutture di potere, le organizzazioni di corrente o di clan, le relazioni massmediatiche che hanno consentito e consentono di radicare un sistema che ha ormai di fatto esautorato il cittadino da ogni rapporto con il sistema parlamentare incrementando l’indifferenza e l’astensionismo?Né si dica, per carità, che la realtà attuale, che ha consentito di rimettere la composizione del Parlamento in carica ad una decisione di vertice gestita (per quanto attiene al centro-sinistra) da non più di venti persone, è figlia di una sciagurata legge elettorale voluta dalla precedente maggioranza.

Non basta rispondere – come mi ha detto un autorevole politico presente ad Orvieto – che noi quella legge non l’abbiamo votata. Nonostante il suo vigore era comunque possibile gestire la formazione delle liste elettorali con una seria apertura alla società civile, anziché risolverla in chiave di bieca lottizzazione fra adepti, compagni di corrente o amici personali. La mia consapevolezza di giurista mi dice che non esiste legge capace di condizionare l’esperienza quando questa è portatrice di valori autenticamente condivisi. Evitiamo allora di porci troppe domande sul futuro e cerchiamo di compiere, in termini rigorosi (se si vuole, impietosi) una seria diagnosi sul presente. Se facessimo ciò potremmo agevolmente constatare:- che i problemi drammatici che si aprono al panorama del nuovo secolo (come bene ha illustrato Scoppola nella sua relazione) e segnatamente quelli legati alla difficoltà di rapporto tra il comune cittadino e il sistema politico non sono assolutamente influenzati nella loro soluzione da previe opzioni di segno cattolico o socialista;- che non è più possibile pensare ad un sistema politico gestito in termini di assoluta autoreferenzialità, in cui il cittadino venga chiamato a dire la sua soltanto in periodiche scadenze elettorali, perché allora è inevitabile che il voto (quando pure si decida di darlo) si riconduca ad opportunismi di segno del tutto occasionale secondo registri di tipo emotivo (con la conseguenza che una battuta, gettata all’ultimo momento in televisione, sulla possibilità di eliminare l’ici, finisca per spostare centinaia di migliaia di voti);- che dunque la creazione di un partito nuovo non può essere pensata come operazione di vertice, per giunta con una sorta di premio di maggioranza ai promotori (ad Orvieto c’è stato addirittura chi ha sostenuto che ci deve essere una fase iniziale dell’organizzazione in cui i voti si pesano e non si contano), ma come un modo di rimescolare integralmente le carte aiutando i cittadini a crescere nella consapevolezza di svolgere un ruolo politicamente non subalterno.Non si tratta di riproporre l’artificiosa alternativa tra sistema istituzionale e società civile, ma solo di intendere – verificandolo nella concretezza dei comportamenti – che si tratta di due facce della medesima medaglia.

E la medaglia avrà valore solo se, gettandola sul tavolo, se ne riconoscerà l’autenticità del conio, quale che sia la faccia che occasionalmente appare.Smettiamola allora di discutere di radici (dimenticando, oltre tutto, che un albero è solido solo se le radici sono nascoste sottoterra, non se vengono alla superficie) e cominciamo ad articolare progetti. Può darsi che le proposte avanzate ad Orvieto da Vassallo non siano tutte da condividere. Esse hanno comunque il pregio di indicare un tragitto che non è più semplicemente disegnato secondo logiche di vertice e soprattutto si sforzano di indicare meccanismi in cui non ci sono più (né ci possono essere) salvadanai o calzoni della domenica da salvaguardare.Un punto ulteriore mi sembra infine opportuno segnalare, ancorché non sia entrato – se non mi sono in qualche momento distratto – in nessuno degli interventi svolti ad Orvieto. Il problema del nuovo partito democratico non è soltanto un problema di struttura o di contenuti. Deve essere anche segno di un nuovo stile del far politica. Per ricorrere ad una immagine elementare, così come una persona di stile la si riconosce, prima ancora che parli, dal suo modo di muoversi, di comportarsi, di gestire, in termini del tutto analoghi il nuovo partito democratico deve essere riconoscibile per la diversità del suo atteggiamento nel panorama politico prima ancora di valutare le sue scelte gestionali, le sue opzioni politiche. Dispiace dover constatare che alcuni sondaggi (addirittura svolti prima dell’impatto con la legge finanziaria) abbiano evidenziato come, nel passaggio dalla vecchia alla nuova maggioranza, non si sia colta una radicale differenza di comportamenti e di stile.Noi dobbiamo essere diversi.

Non possiamo continuare a guardare prima agli amici che ai competenti, non possiamo coltivare l’immagine che per far funzionare la macchina burocratica bisogna prima collocarsi politicamente e poi (eventualmente) dimostrare le proprie capacità, non possiamo continuare a gestire gli appalti pubblici in chiave di ricadute elettorali né possiamo coltivare lo sciagurato sistema dello spoil –system mortificando riconosciute professionalità, non possiamo introdurre il modello che sia meglio l’ossequio passivo al potente di turno che non una seria capacità critica. Dobbiamo in sostanza radicare nei nostri interlocutori, che sono tutti dei potenziali elettori, la convinzione che, nei diversi contesti in cui si articola il raccordo tra società civile e sistema istituzionale, ciascuno verrà giudicato per la sua solidità morale, per il suo spessore culturale, per il suo bagaglio tecnico e professionale non per la sua collocazione politica (spesso del tutto strumentale e, come l’esperienza ha dimostrato anche ai massimi livelli, assolutamente variabile) e meno che mai per i suoi rapporti personali e amicali. Ricordiamoci che la casa brucia anche perché – e da molto tempo – non abbiamo capito questo.

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