La Grande Partita di Kabul

21 Ott 2005

L’espressione “The Great Game”, la Grande Partita, fu coniata dal capitano inglese Arthur Conolly, decapitato un mattino di giugno del 1842, nell’antica città di Bokhara, su ordine del sanguinario Emiro Nasrullah. Ma fu Rudyard Kipling, anni dopo, ad immortalarla nel suo romanzo “Kim”: “Ora m’inoltrerò sempre di più verso il Nord, giocando la Grande Partita…”. L’ampio scacchiere sul quale si giocava questa partita nell’Ottocento si estendeva dal Caucaso fino a lambire la Cina ed il Tibet, dopo aver attraversato i vasti deserti e scavalcato le alte montagne dell’Asia Centrale. Il premio finale nelle mire della Russia zarista – così era paventato a Londra e Calcutta – era la conquista dell’India allora sotto dominio inglese. Dopo la rivoluzione russa del 1917, l’Unione Sovietica sigillò le frontiere con i confinanti musulmani a sud, sospendendo la Grande Partita per oltre ottant’anni.
La riapertura di queste frontiere nel 1991 ha dato il via ad una Nuova Grande Partita, come l’ha battezzata il giornalista pakistano Ahmed Rashid. Il suo centro di gravità è ancora una volta l’Afghanistan, crocevia di enormi interessi strategici, rifugio di estremisti islamici e con vicini che possiedono armi nucleari e altri che sono grandi produttori di petrolio. La moltitudine di protagonisti in campo, o il ”torneo delle ombre” per riprendere un’espressione usata a suo tempo da un plenipotenziario zarista, va dalle grandi compagnie petrolifere occidentali, alle interferenze sotteranee di Iran e Pakistan, all’invasione culturale e affaristica dell’India, a Russia e Cina preoccupati da una sicurezza regionale garantita dagli Usa, alle ex-repubbliche sovietiche con etnìe simili a quelle afghane, alle forze militari americane ed europee con le loro diverse agende.

Questa volta il premio finale è l’accesso ai pozzi di petrolio ed il controllo del territorio dove transitano gli oleodotti e, per alcuni, il lucrativo commercio di droga.
D’altra parte, a volere un Afghanistan instabile e senza regole sono in tanti. Mi ha detto un giovane uomo d’affari afghano rientrato dal Canada che questo è il miglior posto dove fare affari al mondo perché non ci sono tasse. Difatti India e Pakistan invadono l’Afghanistan con ogni tipo di prodotto (grano, cemento, elettronica, medicinali e perfino frutta e verdura) a costo zero, fornendo ulteriore motivo di rivalità tra loro. La provincia di Herat è sotto l’influenza dell’Iran dove ha interessi politici, economici e religiosi. Soprattutto, ha interesse a mantenere questa zona come cuscinetto per evitare la presenza Usa alle sue frontiere. Esiste poi una questione “acqua”, sia per l’Iran che per il Pakistan: l’Afghanistan, che ne ha molta, potrebbe cominciare a regolarne il flusso attraverso un sistema di dighe mettendo fine all’acceso gratuito di cui finora hanno goduto i due paesi limitrofi.
“Dove si sta dirigendo l’Afghanistan? Verso la democrazia, l’insurrezione o l’anarchia?”. La domanda, recentemente sollevata in un editoriale dell’ Asia Times, non è così retorica come appare. Suggerisce che molte delle aspettative alimentate dopo la caduta dei Talebani, quattro anni fa, rischiano ora di rimanere deluse. La ricostruzione del paese è stata molto lenta. Agli occhi di molti afghani, forse troppo.

L’attività terroristica ed il narcotraffico rimangono in cima alla lista dei problemi, costringendo il paese a rimanere in bilico tra stabilità e caos. I neo Talebani hanno recentemente minacciato di trasformare l’Afghanistan in un “hub di violenza, omicidi, rapine e droga”. E’ ovvio che gli afghani e la comunità internazionale devono lavorare insieme per evitare che tale incubo diventi realtà.
Dopo venticinque anni di guerra e di regimi oppressivi, l’Afghanistan, grazie al processo innescato dall’Accordo di Bonn del 2001, ha ora una Costituzione e un Presidente eletto nonché, dopo le operazioni di spoglio delle elezioni del 18 settembre, un Parlamento e dei Consigli Provinciali. Sono passi importanti verso la rappresentanza diretta e la democrazia ma non sono da soli sufficienti a risolvere gli enormi problemi del paese. Numerose provincie sono rimaste fuori dal controllo del governo centrale per oltre vent’anni, la vita media non supera i 43 anni, l’analfabetismo colpisce il 70% della popolazione, una corruzione ed un’impunità generalizzate fanno parte della vita quotidiana. L’Afghanistan deve essere rimesso in piedi. Le infrastrutture sono praticamente inesistenti (strade, fogne, energia elettrica), il sistema sanitario è semplicemente spaventoso e la mancanza d’istruzione è alla base di molta arretratezza. Ma dopo oltre tre mesi di permanenza in Afghanistan e dopo averlo girato in lungo ed in largo, penso che occorra essere prudenti con le promesse e non alimentare aspettative difficili da soddisfare.

Se l’Accordo di Bonn ha gettato le basi per la creazione di un legittimo governo nazionale, la conferenza dei donatori, che si svolgerà a gennaio e che avvierà la fase post-Bonn, dovrà creare le condizioni per il rafforzamento dell’amministrazione pubblica con un calendario e dei benchmarks precisi, a cominciare dal sistema bancario e la fiscalità. La comunità internazionale dovrà fare la sua parte, continuando a garantire la sostenibilità finanziaria a medio termine. Lo slancio positivo creato da queste elezioni deve servire a promuovere la ricostruzione e le riforme sociali. Per l’Afghanistan la vera grande partita comincia ora.

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