Il link negato tra le bombe e l’Iraq

22 Lug 2005

Due terzi degli inglesi sono convinti, secondo un sondaggio pubblicato dai giornali, che la strage del 7 luglio sia “in parte” dovuta all’impegno del Regno Unito nella guerra in Iraq. Il legame, categoricamente negato dal primo ministro Tony Blair, è invece sostenuto da voci autorevoli come quella di Shane Brighton del Royal United Services Institute, Centro studi di fama internazionale di cui lo stesso Blair disse “non è secondo a nessuno”. A leggere sulla stampa britannica un ampio ventaglio di commenti e di lettere all’indomani degli attentati falliti del 21 luglio, sembra che ora Blair sia sempre più isolato nella sua ostinazione a negare ogni legame fra i due fatti. La sua tecnica da spin doctor, cioè la sua manipolazione dell’informazione, sembra stavolta fare cilecca. Perché l’opinione pubblica inglese inizia a non bere più – sono parole usate dal Guardian di oggi – la versione blairiana dei fatti?

Cinquantasei morti e 700 feriti non aiutano certo a ragionare. C’è un’autocensura del lutto e del dolore e poi il controllo sociale che bolla come traditore chiunque avanzi dubbi e critiche. Nella società anglosassone ci si scontra anche duramente in Parlamento ma quando si è presa una decisione si va avanti compatti. Specie se si tratta di una guerra, scatta un meccanismo di lealtà quasi militaresca che non ammette sfumature o segni di cedimento. Il Regno Unito ha una storia d’Impero alla spalle e soprattutto due guerre mondiali vinte dalla parte giusta, non c’è rimorso nella maggior parte della gente di fronte all’interventismo, semmai uno strisciante anti-americanismo che talvolta fa capolino per la nostalgia tutta isolana di poter dettare una propria politica indipendente.

Questo feeling spesso accomuna destra e sinistra, eccezion fatta per l’ala sinistra del Labour e per il sindaco pacifista di Londra Livingstone il quale però non ha mai osato di accusare nessuno tranne i terroristi per il 7 luglio, giudicando evidentemente fuor di luogo qualunque speculazione politica di fronte a un vile massacro.

Ma se a distanza di due settimane dalla strage la storia si ripete con la sua parodia (tre attacchi al tube, uno a un bus, in quattro punti diversi, stesse modalità), tutti sono costretti a riflettere, a costruirsi una logica di quanto sta accadendo. Non un lutto da elaborare stavolta ma un mistero da risolvere su come a due settimane di distanza dalla strage per esempio quattro bombers abbiano sbagliato tutti e quattro insieme, alla stessa ora. C’è chi sostiene che i bombers potrebbero aver voluto sbagliare nell’ambito di una strategia orchestrata in modo da tenere alta la tensione, “i morti non servono a chi li ha già mietuti basta tenere viva la paura”. Chi pensa invece all’azione di un gruppo di imitatori meno professionali, gente che vorrebbe accreditarsi agli occhi degli islamici estremisti o di Al Qaeda. E chi semplicemente ritiene che a fabbricarsi le bombe artigianalmente si possa facilmente sbagliare.

La stampa popolare ha già eletto i suoi eroi ed antieroi. “Chi è il criminale?”. E’ la domanda retorica del Sun accompagnata dalle foto in prima pagina del pluridecorato colonnello britannico Mendonca sotto accusa per fatti successi in Iraq e il religioso islamico Omar Bakri Mohammed che dalle moschee giustifica gli attentatori e dichiara candidamente che non rivelerebbe mai alla polizia se fosse a conoscenza di trame per nuovi sanguinari attentati.

La stampa d’opinione si era invece già divisa nei giorni scorsi secondo l’orientamento politico. Il progressista Guardian commenta: “Niente giustifica quello che hanno fatto i terroristi. Ma davvero è utile spiegare come abbiamo capito dove siamo e cosa abbiamo bisogno di fare per andare verso una situazione di maggiore sicurezza. Se Blair non sapeva che l’invasione ci avrebbe reso più vulnerabili, è negligente, se lo sapeva, allora dovrebbe prendersene la responsabilità. Ciò non significa che noi ci meritammo ciò che stava per accadere. Significa che ci meritiamo qualcosa di molto meglio”. Questa voce critica di Gary Younge si era alzata già l’11 luglio, fra i primi commenti a freddo. Il leader dei liberaldemocratici ripreso dall’agenzia Reuters e da tutti i giornali, Charles Kennedy, da sempre contrario alla guerra e premiato con un passo avanti in percentuale alle ultime elezioni, in Parlamento aveva attaccato frontalmente il Primo ministro: “Quelli come Bush e Blair che hanno cercato di legare l’Iraq con la cosiddetta “guerra al terrorismo”, oggi difficilmente possono essere sorpresi quando si traccia il medesimo legame quando atti di terrorismo accadono qui nel Regno Unito”. Naturalmente Blair replicò che l’11 Settembre portava la data del 2001 e non del 2003. Che come nessuna ipotesi di pacificazione è mai servita a sedare il terrorismo in Israele o nell’Ulster, così il terrorismo dei bombers di Londra va legato solo a una ideologia diabolica.
Ma l’opinione pubblica ha perso la sua verginità con la scoperta della tragica menzogna sulle armi di distruzioni di massa.

Il tabù del link fra Iraq e terrorismo di conseguenza s’incrina, lasciando spazio a un campo diversificato di opinioni.

Un lettore musulmano del liberal Indipendent scrive che non serve scandalizzarsi se le leggi inglesi sui diritti umani permettono a un religioso islamico di tuonare nelle moschee giustificando i terroristi quando è la guerra in Iraq il primo carburante gettato dal governo sul fuoco degli estremisti. Un altro lettore dell’Indipendent si chiede come mai oggi si dice che le bombe non hanno nulla a che fare con l’Iraq, mentre lui si ricorda che nessuno mai disse negli anni ’80 che le bombe dell’Ira a Londra non avevano nulla a che fare con il pattugliamento militare britannico a Belfast o negli anni ’40 che i bombardamenti nazisti non avevano nulla a che fare con la dichiarazione di guerra alla Germania.
Mentre in piazza le (per fortuna pochissime) teste rasate fanno da contraltare ai (per fortuna tanti) cartelli contro la guerra, il terrorismo e il razzismo, qualche musulmano nega di sentirsi rappresentato dai “presunti leader islamici” che lanciano messaggi di condanna in compagnia di Blair, dimenticandosi i 25mila morti civili in Iraq. Insomma se qualche isteria e punta di eccentricità non manca, il dibattito ha comunque ripreso quota. Oggi non solo il Guardian dice che dichiarare la guerra “antiterrorismo” all’Iraq e poi negare che questo abbia connessione col terrorismo a Londra è come il fumatore che per negare l’evidenza della pericolosità della sua abitudine dice che potrebbe morire anche investito da un’auto.

Perfino il conservatore Times ammette il link tra guerra e bombe. Solo che l’opinionista Gerard Baker ne dà un’altra chiave di lettura, in sostanza: “Il link c’è, è proprio per questo che stiamo ombattendo la guerra in Iraq e se questo ci rende ancora più vulnerabili è solo una ragione che ci spinge a vincere”. Mentre la cronaca della polizia che spara nella metropolitana per inseguire presunti terroristi incalza, la politica dovrà assumersi le sue responsabilità per proteggere l’Occidente e la democrazia da una sfida contro la quale pare sempre più lampante che non bastano né eserciti né spin doctor.

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