L’Italia ai margini della futura politica estera comune

13 Ott 2003

Inaugurata la Conferenza intergovernativa occorre entrare nel vivo di alcuni degli aspetti più delicati e controversi del testo sottoposto dalla Convenzione europea, tra cui il ruolo e le funzioni del futuro ministro degli esteri europeo. Nel corso delle ultime sedute della Convenzione a Bruxelles, complice forse il clima del “tutti a casa”, è stata approvata una dichiarazione (allegato III), cui la Conferenza rischia di apporre il suo sigillo ipotecando così qualsiasi sviluppo futuro in materia. Per assistere il ministro degli esteri europeo la Convenzione ha convenuto “della necessità di istituire, sotto l’autorità del ministro, un unico servizio comune (servizio europeo per l’azione esterna), costituito dai ministri del Consiglio pertinenti, da funzionari del Segretariato della Commissione e da personale distaccato dai servizi diplomatici nazionali…”. Poiché il futuro ministro degli esteri europeo sarà nominato dal Consiglio, cioè dai governi, e al Consiglio dovrà rispondere, l’idea di un servizio diplomatico europeo creato all’infuori della Commissione, oltre ad introdurre un’alterazione impropria dell’equilibrio istituzionale, rappresenta un segnale preoccupante circa l’involuzione che il tema della politica estera comune rischia di subire. In altre parole, mentre viene continuamente reiterata la volontà di comunitarizzare la politica estera, c’è chi, silenziosamente, lavora per la sua rinazionalizzazione, portando le funzioni del futuro ministro sotto la responsabilità del Consiglio, in ossequio ad una visione della PESC puramente intergovernativa.

Sembra che la dichiarazione abbia avuto l’avallo politico di Giscard d’Estaing il cui paese, la Francia, è tradizionalmente ostile a qualsiasi rinuncia della propria sovranità in questo settore. E non poteva dispiacere neppure al potente Segretario Generale britannico della Convenzione, né ai tedeschi, che tra l’altro puntano ad ottenere la nomina del ministro degli esteri stesso. Lo scenario che si profilerebbe in tal caso, dopo aver estromesso la Commissione e sempre che non si opti per una soluzione terza, è quello di un graduale trasferimento delle strutture della Direzione Generale per le relazioni esterne dalla Commissione al Consiglio che, già si prevede, avrà la facoltà di fornire il personale alle Delegazioni (Ambasciate) dell’UE, in particolare il Capo-Delegazione la cui nomina, vista la procedura, difficilmente potrà sottrarsi ai forti condizionamenti provenienti dalle capitali. In breve, i funzionari del servizio diplomatico europeo saranno assoggettati a statuto, regole e modalità di carriera decise dal nuovo ufficio del ministro degli esteri presso il Consiglio. Il punto centrale è questo: se si toglie il volet esterno, alla Commissione rimane solo il mercato interno, con il rischio di trasformarla in una sorta di mera autorità di regolamentazione sul modello del WTO. Davvero una malinconica sorte. Ma anche se così fosse, occorre ricordare ai fautori di un’Europa scarsamente comunitaria che per gestire il commercio, la concorrenza, l’ambiente ecc…il ruolo delle Delegazioni è fondamentale e se i posti chiave al loro interno dovessero rispondere ai governi e non alla Commissione ciò sarebbe perlomeno contraddittorio.

Il fatto poi che il ministro degli esteri europeo indossi il cosiddetto doppio cappello, ricoprendo anche la carica di Vice-Presidente della Commissione, appare in tali circostanze solo una formalità, un contentino che si dà alla Commissione per tacitarla, soprattutto se tale ruolo sarà soprannumerario rispetto agli altri Commissari. A chi conviene uno scenario simile? A quegli Stati membri cui questa sistemazione istituzionale ed amministrativa più si attaglia: Francia, Germania e Gran Bretagna, che così formerebbero un triumvirato di paesi “forti” a danno dell’Italia. Non a caso il mini vertice a Berlino il mese scorso tra questi tre paesi non si è limitato ad esaminare la questione irachena, nonostante le rassicurazioni fornite ai partner esclusi, ma ha trattato temi a tutto campo. L’evento in sé, quindi, al di là del suo sostanziale fallimento sul tema Iraq, ha segnalato comunque un riavvicinamento significativo tra loro, una tendenza confermata dal successivo sostegno di Chirac alla candidatura tedesca per il Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Si tratta di un dato che si consoliderà progressivamente per poi trovare un assetto definitivo nella futura politica estera comune? È realistico pensarlo alla luce anche di come si stanno mettendo le cose per il futuro trattato. Al governo italiano incombe quindi l’onere di reagire con tempismo per evitare di essere relegato ai margini della futura politica estera europea.

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